sostegno sessuale

« Older   Newer »
  Share  
giusira
icon12  view post Posted on 28/10/2011, 10:31




Da quando mi è stato chiesto, di collaborare sull'argomento sessualità e disabilità,ho cercato di fare un sondaggio tra i disabili,ho notato grande imbarazzo e diffidenza,come se fosse qualcosa di sporco di cui non si deve affrontare l'argomento e non li riguardasse, come se avessero accettato l'idea che non possono vivere la propria sessualità,cosa loro negata.
E' pur vero che,bisognerebbe cominciare a lavorare sui pregidizi dalla radice profonda dovuta al fatto che un diversamente abile non ha
nessun diritto,tante volte considerato un oggetto,non una persona con un cuore sentimenti e pulsioni come ogni essere umano.






 
Top
view post Posted on 28/10/2011, 13:45
Avatar

uniamoci

Group:
Administrator
Posts:
2,074
Location:
sicilia

Status:


bella osservazione.
 
Web Contacts  Top
view post Posted on 30/10/2011, 03:08
Avatar

Member

Group:
Member
Posts:
747

Status:


non è sempre così per fortuna
 
Top
view post Posted on 30/10/2011, 21:05
Avatar

uniamoci

Group:
Administrator
Posts:
2,074
Location:
sicilia

Status:


diccillu...
 
Web Contacts  Top
giusira
view post Posted on 31/10/2011, 13:07




per fortunaaaaaaaaaa
 
Top
view post Posted on 3/11/2011, 19:26
Avatar

uniamoci

Group:
Administrator
Posts:
2,074
Location:
sicilia

Status:


È alla fine degli anni ‘80 che si apre il dibattito sull’affettività e sessualità delle persone con handicap ponendolo all’attenzione di genitori, operatori, servizi socio-educativi, assistenziali e riabilitativi. Aumentata la disponibilità di informazione sul tema, vengono avviati progetti di ricerca per dare continuità alla formazione. Dunque, non si è più all’anno zero, anche se la strada da percorrere appare ancora lunghissima. Handicap e sessualità: quasi un paradosso che cavalcato oculatamente può preludere a un’evoluzione culturale. I contributi riportati rilevano i vissuti degli operatori e il ruolo insostituibile della formazione di tutti i protagonisti.
RIBALTAMENTO DI PROSPETTIVA
ANCHE IL DISABILE È SESSUATO
di MARIA CRISTINA PESCI e ANDREA PANCALDI
(rispettivamente sessuologa, psicoterapeuta e
responsabile settore documentazione del Cdh)
I significati, il valore, il senso che ciascuno dà al termine sessualità non è mai svincolato dalla storia che ciascun individuo rappresenta con il suo stesso vivere, sentire, manifestare. Ciascuna di queste rappresentazioni ha inoltre, dentro di sé, parti conosciute, consapevolmente ragionate, scelte e parti nascoste, ma che ugualmente vanno a costruire il senso che ciascuno dà alla sessualità. Così la sessualità è legata a due dimensioni fortemente intrecciate: una rimanda alla relazione, al desiderio di incontro e scambio globale da cui è difficile dissociare le diverse componenti quali la genialità, l’erotismo, la corporeità, la ricerca del piacere, i sentimenti d’amore e d’affetto.
Diventa piacere di comunicazione rispetto alle proprie sensazioni e piacere di ricevere sensazioni dagli altri con i gesti, con la voce, con lo stare insieme, con il corpo. La sessualità, in fondo, è una dimensione legata al piacere-desiderio di essere oggetto, e soggetto di desiderio e piacere.
La seconda dimensione propone la sessualità come espressione diretta della soggettività di ogni singola persona. Un processo che parte dal piacere della sensorietà e motricità, dalla cura di sé, dal senso stesso dell’esistere, della propria identità e unicità.
Il riconoscimento di queste componenti fa parte di un processo di crescita e di evoluzione che accompagna tutto l’arco della vita di ciascuna persona e che influenza l’identità personale, la corporeità, lo scambio con gli altri. Inoltre la sessualità evoca due ordini di pensieri ed emozioni: una legata al piacere, al desiderio, all’espansione e all’evoluzione di sé dei legami, espressione di energia e forza vitale e creatrice, ossia un insieme di aspetti positivi, giocosi spesso idealizzati (sessualità buona); l’altra, di contro, legata a percorsi più oscuri, che evocano disorientamento, eventuale solitudine e mancanza, prevaricazione e aggressività (sessualità cattiva).
Spostare l’ottica attraverso cui guardare il tema della sessualità è uno dei passaggi fondamentali per parlare di sessualità e disabilità, partendo dalla propria rappresentazione, dai propri valori e sentimenti in qualità di persone che comunque convivono con la propria soggettiva strutturazione delle numerose componenti che la sessualità racchiude.
Ognuno parte dalla propria immagine di sessualità nell’affrontare questo tema e nell’ascolto di ciò che l’altro esprime.
Spesso gli operatori avvertono questa premessa e sperimentano questa consapevolezza come una sorpresa che comunque cambia radicalmente l’ottica da cui elaborare riflessioni e interventi educativi; la conseguenza più evidente è quella che trasforma l’aspettativa di parlare di sessualità e approfondire il tema legato alla disabilità, nell’opportunità di elaborare la dimensione sessuale di una relazione che è costituita da due poli: l’operatore e l’utente, il paziente, e ciò che quella coppia crea di volta in volta con il reciproco interagire, sentire, cogliere dell’altro.
Paradossalmente "diventare carne" (spesso abbiamo usato questo titolo di poesia per evocare questo tema) rinvia a un significato che vuole riconosciuta la sostanza stessa della persona, la carne, quasi dimenticando come chi vive sulla propria pelle la presenza di una malattia, di un deficit o di un disagio, molto spesso è sottoposto a continue manipolazioni e invasioni della propria dimensione corporea senza che nessuno ricordi gli aspetti emotivi, i sentimenti e le emozioni che ogni relazione di cura va a determinare.
Tra cura e relazione
La sessualità spesso irrompe dentro ai progetti educativi o nell’ordinamento della vita quotidiana di una struttura; si presenta come qualcosa di inatteso, che sorprende e scombina i piani e che provoca negli operatori (e nei familiari) un forte senso di disagio e timore d’essere inadeguati.
Credo che in entrambi i casi, attesa o dimenticata, la sessualità getta spesso scompiglio, disordine, manda all’aria il modo concreto e quotidiano del "prendersi cura", fa sentire impotenti le più avanzate strutturazioni e conoscenze tecniche e i più rigorosi ordinamenti (gerarchie, il chi si prende cura di chi, il sapere della cura quotidiana dell’operatore, i progetti educativi e i percorsi individuali).
Le strutture che, per paradosso, si dotano dei più elaborati ordinamenti e divieti in ordine alla sessualità e alla sua più rigorosa esclusione dalle attività e dagli argomenti di cui gli operatori si possono occupare sono la concreta dimostrazione dell’impotenza e della forza dirompente che accompagna questo tema, negato o annunciato che sia.
La sessualità porta comunque con sé numerose prospettive di cambiamento, e viceversa la disponibilità nella cura all’altro ad avere antenne ricettive e in sintonia rispetto ai cambiamenti dell’utente promuove facilmente l’incontro con il tema della sessualità, con la sessualità dell’utente e inevitabilmente con la propria sessualità in qualità di operatori e persone.
Alcuni significati che la sessualità racchiude, alcuni piaceri rappresentati dalla sessualità hanno sorprendentemente grandi territori di comunicazione e spazi emotivi in comune con la professione di cura, con il senso di prendersi cura di.... e con l’esistenza del piacere collegato a esso, cioè, con il piacere di prendersi cura.
Per fare esempi, se pure schematici, possiamo considerare il piacere della sensorietà e motricità che la sessualità racchiude come occasione di numerosissime azioni, gesti, attenzioni che l’operatore compie nell’occuparsi di una persona con deficit (motòri, mentali, emotivi, psichici).
Il piacere che viene dal corpo, dalle sue sensazioni (essere toccato, contenuto, spostato, pulito, nutrito, cambiato) fa parte di quei piaceri primari che costruiscono, nello sviluppo di ciascuno, l’essenza di sentirsi vivi, dell’esserci, del benessere; i primi pilastri del senso della propria identità separata ed egualmente in comunicazione con il mondo, con l’altro.
Quanta parte del lavoro di cura con persone con deficit è attraversata da questa dimensione primaria di contatto e comunicazione!
Questa dimensione della sessualità, simile per ogni individuo, parte fondante della propria storia e del senso di sé, è di fatto uno spazio comune tra due persone che si trovano a contatto e che quindi inevitabilmente mettono in comunicazione aspetti tanto profondi ed emotivamente significativi.
La sessualità quindi impone, anche nell’operare quotidiano e per quelle funzioni che possono più facilmente richiamare alla mente "il fare", un’area di contatto con il piacere e con la sua mancanza, evocata dalla presenza del deficit e quindi dalla permanenza indefinita del bisogno d’essere oggetto della cura dell’altro.
La sessualità produce identificazioni rapide, inconsapevoli, spesso turbolente a questo livello di vicinanza.
Da questo punto di vista essa offre aperture verso il centro profondo di sentirsi soggetto-individuo, ma contemporaneamente può provocare oscure ribellioni rispetto alla percezione di sentirsi limitati, dipendenti, bisognosi, in balìa dell’altro.
Cosa succede nell’operatore che si trova, più o meno consapevolmente, a contatto con questo aspetto della sessualità, con il piacere e il disagio che di fatto scaturisce dal contatto dei corpi di chi cura e di chi è oggetto di cura?
Sotto questa visione il piacere/disagio che può venire dal corpo e dal prendersi cura sono un terreno conosciuto e praticato ogni giorno nella relazione operatore/utente di fatto già impegnati su un territorio che appartiene anche alla sessualità.
Un esempio di quanto affermato si ritrova nei percorsi di autonomia rispetto alla cura di sé, del proprio corpo e dei rapporti con gli altri (vestirsi, tenersi puliti, scegliere i propri abiti, farsi belli, conoscere nomi e funzioni del corpo, le sue parti pubbliche e quelle più intime e private), che sono in fondo un ambito in cui è comunque inclusa una parte della sessualità e può aprire molte altre strade di contatto o distanziamento.
Aspetti problematici
La sessualità può, per contro, produrre e mettere in atto atteggiamenti di rifiuto all’interno della relazione operatori-utenti, di negazione delle somiglianze nonostante le differenze, di vere e proprie segregazioni dei corpi, delle loro espressioni, dei loro bisogni: una riesumata segregazione di chi è diverso, meno autonomo, con minori opportunità.
La paura delle espressioni della sessualità e del suo "coinvolgere" può disorientare l’operatore che si sente oggetto privilegiato d’amore, di attenzioni, di richieste da parte della persona di cui è chiamato a prendersi cura. Nella stessa misura può essere conflittuale e destabilizzante "assistere" e cogliere il desiderio, il piacere, gli affetti che possono coinvolgere gli utenti nelle più disparate combinazioni.
Questi aspetti problematici possono provocare una specie di svilimento dei sentimenti delle persone coinvolte e ridurre le dinamiche emotive al puro istinto; provocare nuove giustificazioni al controllo inteso come prevaricazione sull’altro dotato di meno potere.
Di fatto molte richieste di consulenza, supervisione e formazione sul tema della sessualità includono, spesso ben nascoste agli stessi richiedenti, il bisogno di neutralizzare, deviare o sedare le espressioni in ordine ai temi dell’affettività, dell’erotismo e di ogni altra componente.
È indispensabile avere un’attenzione speciale per comprendere a quali bisogni si intende rispondere e da quali necessità, più o meno visibili, si è motivati. Può succedere che l’operatore si ritrovi schiacciato tra il desiderio, che è anche un mandato professionale di dare ascolto, accoglienza e disponibilità all’espressione dell’utente, e il dovere di controllare, impedire, neutralizzare.
Spesso dar voce alle preoccupazioni degli operatori sul tema della sessualità implica aprire spazi di riflessione riguardo a numerose istanze: le difficoltà legate al dovere di frustrare o soddisfare le richieste dell’utente e delle famiglie; misurarsi con il senso di colpa di usufruire di una qualità e quantità di libertà anche sessuali e relazionali sentite come molto più ampie e soddisfacenti rispetto alle persone di cui ci si cura professionalmente; costruire di volta in volta modalità appropriate per affiancare l’altro bisognoso, e a disagio nella sua solitudine, di senso di impotenza, di tristezza o ribellione; stare con l’altro piuttosto che fare-risolvere-agire a tutti i costi, così come il mandato istituzionale molto spesso esige.
Per concludere questa riflessione riprendo il contributo(1) di più autori a proposito della cura del bambino prematuro, contributo che può essere esteso significativamente alla dimensione di cura e a quanto può essere modificata dalla rielaborazione possibile all’interno di percorsi formativi, i cui spazi e tempi diventano luoghi per avviare un confronto capace di mettere in luce le similarità e le differenze, fra la realtà quotidiana praticata e altre impostazioni di lavoro.
Gli operatori, stimolati dalle proposte e dalle modalità di intervento discusse nei casi formativi, ma consapevoli delle difficoltà, delle risorse a disposizione e dell’organizzazione delle strutture in cui lavorano, potrebbero essere scoraggiati dalla prospettiva di tentarne un’applicazione.
Le reazioni di fronte alla sensazione di impotenza e di frustrazione potrebbero comprensibilmente emergere nel valutare questi messaggi interessanti, ma non fattibili.
Si può suggerire, come punto di partenza, la costruzione di un gruppo, anche ristretto, preferibilmente multidisciplinare, di operatori motivati con il compito di analizzare il proprio contesto di lavoro, le priorità in relazione all’attuabilità delle innovazioni da introdurre e di stabilire appuntamenti da raggiungere a breve e a lungo termine.
Vanno inoltre stabiliti criteri e modalità per cogliere l’utilità e l’indirizzo dei cambiamenti operati nelle tre aree del benessere dell’utente, delle famiglie e degli operatori che di essi si prendono cura.

Punti di vista complementari
La nostra esperienza ci ha insegnato che è possibile introdurre cambiamenti positivi e progettare percorsi che hanno come fondamento il reale ascolto dei bisogni di ogni entità coinvolta. L’associazione Centro di documentazione handicap di Bologna conduce da alcuni anni un’intensa esperienza formativa sui temi della relazione d’aiuto e delle professioni di cura. In particolare una parte consistente del lavoro formativo tocca il tema del rapporto fra handicap e sessualità.
Alcuni cambiamenti sociali e culturali, ormai da tempo avviati nel campo dell’integrazione delle persone disabili, hanno reso evidente la necessità di considerare la persona handicappata nella sua globalità e quindi anche riconoscendole la propria identità sessuale. Contemporaneamente la consapevolezza degli aspetti relazionali all’interno del lavoro sociale ed educativo permette il riconoscimento di una serie di istanze che coinvolgono il rapporto educatore-utente anche sui temi strettamente legati alla sfera sessuale e affettiva. Entrambi questi aspetti rappresentano fra i principali motivi che hanno reso sempre più frequente la richiesta di supporto e di formazione sul tema della sessualità, affettività e handicap, richiesta che rimanda in modo forte al desiderio di mettere in comune le esperienze di ognuno per ritrovare una chiave di comprensione.
Le conduttrici degli stage formativi del Cdh arricchiscono questo dossier con una riflessione a più voci sugli snodi significativi emersi negli anni dal lavoro diretto con i partecipanti.
Maria Cristina Pesci (sessuologa e psicoterapeuta). Occuparsi di sessualità comporta essenzialmente due ordini di riflessioni: uno riguarda l’inevitabile coinvolgimento all’interno della relazione con l’altro, il secondo implica un rimando prima di tutto a se stessi, al di là delle difficoltà che l’altro propone. Se pensiamo al lavoro di "cura" a cui rispondono gli operatori, molti aspetti dell’agire quotidiano contengono in sé dimensioni legate alla vicinanza, alla corporeità, alla comunicazione affettiva e relazionale che rientrano di diritto anche in un generale concetto di sessualità. In sintesi, molti aspetti della "cura" all’altro già rappresentano, spesso inconsapevolmente, la presa in carico di tematiche che la sessualità propone. Molte competenze del fare quotidiano hanno incluse risorse che affrontano la sessualità e i suoi significati. Svelata questa dimensione del lavoro di cura, la sessualità può essere un territorio di conoscenza e interazione ricca e feconda.
Marina Maselli (pedagogista). Uno degli elementi che accomuna chi lavora in servizi diversi (scuola, centri diurni, case di riposo, strutture residenziali o semiresidenziali) è l’affermazione iniziale: «Io di questo tema non so nulla, è un tema che mi spaventa, mi mette a disagio, ho bisogno di indicazioni concrete», che è poi quello che porta ad avere delle aspettative sul corso molto legate alla ricerca di soluzioni immediate. Ed è proprio questo il nocciolo da cui partiamo nella proposta formativa, chiedendoci: «Ma davvero questo è un tema rispetto al quale ognuno di noi, anche senza percorsi formativi specifici, non sa nulla? La sessualità non è forse una componente fondamentale della persona»? Senza dubbio si tratta di un aspetto che fatica a trovare spazio nella quotidianità degli operatori. È una dimensione celata che sembra rivendicare uno spazio nel momento in cui si manifestano situazioni di disagio o difficoltà. E ciò non è esclusivamente legato alla presenza di un deficit. Molto del primo lavoro è riequilibrare questa situazione, di contestualizzarla e rivederla nella quotidianità.
Daniela Lenzi (psicosessuologa). Nella nostra impostazione lavoriamo molto su ciò che sta accadendo dentro al gruppo, in quel momento, rispetto all’argomento, cercando di mettere in evidenza quali sono i meccanismi che scattano sia nel singolo che nel gruppo quando si va a toccare il tema della sessualità e dell’handicap, comunque in generale della sessualità. Ci troviamo a sottolineare come il nostro metodo di lavoro non è tanto dare informazioni su di un tema da studiare perché sconosciuto quanto aiutare loro a capire i meccanismi che scattano quando si vanno a toccare certi nodi. Spesso il lavoro sui casi è esemplare per far risaltare quello che sta succedendo lì fra gli operatori. Partire dal singolo operatore, dal gruppo per vedere come non c’è una scienza specifica sull’argomento, ma ognuno ci mette del suo nel parlarne, nell’ascoltare, nel pensarsi. Questo è un elemento che caratterizza l’impostazione che intendiamo praticare: il lavorare sul qui e ora di ogni specifico gruppo.
Maria Cristina Pesci. Un’altra riflessione centrale del modo di intendere la formazione su questo tema è legata all’attenzione posta su quei meccanismi universali che esistono quando ti trovi di fronte a una dimensione di relazione, in cui la sessualità è qualcosa di così specifico. «Cosa accade a me, cosa accade all’altro», e questo è in parte legato al tipo di difficoltà che l’altro di cui tu ti curi ha, ma solo in parte. C’è quindi sempre uno sfondo precedente, che sottende la relazione portante. «Perché con alcune persone la stessa masturbazione, ad esempio, non mi dà disagio e con altri utenti mi mette in difficoltà»? Con ogni persona esiste un significato e una relazione specifica, anche rispetto al tema così preciso come la masturbazione.
È il riconoscimento che questi temi universali non hanno a che fare esclusivamente con un certo tipo di disagio o di deficit, che avvia un percorso che può diventare innovativo anche nella quotidiana progettazione educativa.
Giovanna Di Pasquale (pedagogista). Nella ricerca di quale senso dare a un percorso formativo sul tema della sessualità e dell’handicap, mi sembra centrale l’idea di toglierlo dal luogo della non parola, come se questo tema, così forte e centrale per tanti aspetti sia personali che di ruolo, scivoli nel non detto. È questo un terreno difficile su cui poco si riesce a costruire degli spazi in cui, prima di parlare di soluzioni, si possa ragionare. Su altri aspetti della relazione di aiuto forse si può correre il rischio opposto di enfatizzare, ma comunque ci si sente liberi di esprimersi. Ad esempio per l’aggressività: un operatore si può sentire libero di vederlo come problema e di esporlo così. Sulla sessualità questo non avviene; dentro al ruolo professionale si fa fatica a trovare una possibilità (uno spazio/tempo) anche semplicemente per dire: mi sento così. I meccanismi che emergono nei gruppi vengono fuori come se fosse una prima volta, magari perché per molti è davvero una delle prime occasioni per parlare di certe situazioni, per dare un nome a quello che si sente.
Maria Cristina Pesci. La sessualità è un tema che sottolinea e rende più visibili elementi che attraversano altre tematiche e che fanno parte dell’operatore, del suo mettersi in relazione e prendersi cura dell’altro. La sessualità, rendendo più visibile alcuni meccanismi, porta a riflettere su cosa significa lavorare in una professione in cui tu ti prendi cura dell’altro, che si propone come bisognoso e dipendente e in cui in qualche misura ci si sostituisce alla famiglia. Il tema della sessualità non è un tema ristretto, non può essere legato a un apporto solo tecnico e specifico ma anzi permette di ragionare ad ampio raggio sul senso del proprio ruolo e delle proprie azioni, all’interno della dimensione ampia della relazione di aiuto e di cura e nei suoi collegamenti sia con altri importanti interlocutori come la famiglia, sia con alcune tappe dello sviluppo personale particolarmente significative come l’adolescenza o la conclusione di quella che è definita età evolutiva.
Daniela Lenzi. Per capire meglio il lavoro che proponiamo è importante chiarire i rapporti fra il contributo psicoanalitico e quello pedagogico. Anche perché fra gli approcci psicologici, quello psicoanalitico è generalmente quello che si è avvicinato meno alla pedagogia e viceversa. Anzi per lungo tempo sono stati quasi antagonisti, mentre è necessario tenere accostati questi due contributi.
Marina Maselli. Man mano che il discorso all’interno dei gruppi si sviluppa e procede verso uno scambio e confronto più attivo, due concetti vengono alla luce: "sessualità " e "disordine", dando vita a una riflessione più ampia. L’affermazione che la sessualità è disordine rimanda alla complessità della relazione educativa. Quando siamo in una relazione educativa siamo in una situazione di complessità, che non è l’elogio della complicazione, ma la consapevolezza della compresenza di molte dimensioni emotive, organizzative, formative. Ragionare in termini di complessità significa anche riappropriarsi di una dimensione precisa come è quella delle emozioni che in alcuni approcci pedagogici viene negata in nome di una presunta scientificità. Ciò che privilegiamo è il punto di vista del vissuto dell’operatore, perché la comprensione dell’altro passa dal riconoscimento delle tue emozioni. Questo è un aspetto che ci accomuna: l’idea che lavorare in educazione comporta una dimensione non sempre prevedibile. E questo vale per gli adulti come per i piccolissimi. Il tema della sessualità mette in luce proprio l’aspetto dell’imprevisto, ciò che non riesco a codificare. Spesso la sessualità fa esplodere in modo macroscopico elementi che sono legati alla fatica di governare l’imprevisto di stare dentro alla relazione che ci chiede di fare i conti con molte componenti.
Giovanna Di Pasquale. Ripensando a come è nata la proposta di coniugare i contributi pedagogici e psicologici, due elementi hanno funzionato da stimolo nel farmi pensare a questa collaborazione in termini di crescita e arricchimento reciproco e mi hanno convinta della possibilità di riuscire a conciliarli. Il primo elemento si richiama all’idea di ricongiungimento delle parti, rimettere insieme, restituire un’armonia al di dentro e al di fuori. «Ciò che mi succede dentro ma anche come tutto questo ha un forte riflesso su quelle che sono le mie azioni, le mie strategie, i modi visibili». Questo per evitare la frattura di un approccio psicologico che indaga la dimensione intima, non riuscendo a coniugarsi con la possibilità d’essere ricondotta all’esterno e di una pedagogia vista come scienza dell’azione che lavora in modo separato dalle sfere esterne. Un elemento di forza del percorso formativo è proprio il tentativo di tenere unito nella formazione ciò che nella quotidianità è davvero inscindibile.
Il gruppo come risorsa
L'altro elemento convincente è il desiderio, il tentativo di trasformare la richiesta che viene dai partecipanti del "sapere sull’altro" (voglio sapere delle cose sull’altro perché comunque il problema, la sessualità è dell’altro) in: vediamo come questa situazione tocca me, cosa fa risuonare in me. Capire cosa può rappresentare per me. Se tocca qualcosa nell’altro, tocca qualcosa anche di me. C’è in tocca qualcosa anche di me. C’è in questo un forte richiamo alla dimensione pedagogica della relazione educativa come profondamente implicante: implica l’altro, ma tira dentro anche me. Non si può guardare l’altro senza tenere conto che ci sei anche tu dall’altra parte.
Marina Maselli. Un’altra cosa che ho sperimentato come elemento di crescita comune con i partecipanti è la possibilità di prendersi un tempo. Tempo per aspettare le risposte che vengono dal gruppo, ma anche un tempo che è fatto di silenzi, di pause di riflessione. Se chi conduce il percorso ha in mente un’idea di "formatore" che fornisce risposte immediate, il tempo dell’attesa può essere vissuto con un forte senso di disagio e di frustrazione. Ma se la prospettiva è quella di dare corpo a un lavoro che cerca di fare dialogare le varie forme di sapere, allora la maggior ricchezza sta proprio nell’avere più sguardi sulla situazione.
Maria Cristina Pesci. Il gruppo come risorsa costituisce un forte parallelo con l’operare quotidiano del rapporto fra l’operatore e l’utente. Da una parte è chiamato a dare subito risposte e dall’altra avverte la necessità di darsi un tempo in cui è ancora necessario comprendere. Un tempo non fatto di vuoto, ma di risorse che si devono mettere in moto, rendersi visibili attraverso l’apporto dei pensieri delle diverse persone.
Come conduttrici ricerchiamo l’equilibrio fra il soffermarsi su alcune questioni in qualche modo già preordinate e il saper seguire le direzioni che il gruppo prende nel momento in cui sta elaborando e discutendo per vedere dove porta quella riflessione, dove porta quella situazione. Arrivando magari a qualcosa d’altro che non era previsto. In questo vedo un forte collegamento fra un approccio educativo-pedagogico e un approccio psicoanalitico legato alle emozioni. Mediare in modo tale da non essere sempre e solo in balìa di emozioni che poi non sai governare, in te e nell’altro, e nello stesso tempo non essere sempre dietro a un percorso che avevi già pensato anticipatamente.
Marina Maselli. È un po’ come ridare dignità a una dimensione lasciata ai margini. È anche evitare che un tema come questo diventi terreno di parcellizzazione esclusivamente specialistico, diventi occuparsi di una parte di quella persona.
Maria Cristina Pesci. In effetti la sessualità è una dimensione molto nascosta che idealmente si tende a percepire come separata nella relazione che spesso viene vista, sia dall’istituzione che dalle persone interessate, come asessuata.
Daniela Lenzi. Il "ripartire dall’operatore" all’inizio è la cosa che lascia più sbalorditi i partecipanti, ma alla fine del lavoro diventa la loro prima risorsa, capire che dentro di loro c’è in qualche modo anche la risposta. Nel loro modo di essere c’è la visione della relazione con l’altro, ma c’è anche la possibilità di modificarla. Lavorare sull’operatore non significa solo metterlo in crisi ma ritrovare nelle risposte che ognuno si è dato un punto di partenza per la quotidianità.
Marina Maselli. Nel lavoro di approfondimento, questi aspetti si rafforzano e precisano ulteriormente. Il tentativo è quello di mettere in luce le competenze, gli strumenti che gli operatori già hanno. Ricordo un contributo di Giancarlo Rigon, neuropsichiatra, in cui ripensando al lavoro svolto nei gruppi di supervisione afferma: «Sono persone che lavorano nei servizi territoriali, sono persone che sanno fare cose straordinarie e spesso le fanno perché sono capaci di misurarsi con un’entità, qualità e variabilità dei problemi ai quali viene mediamente data una buona risposta mettendo molto spesso, in questa ricerca di risposte, il meglio di sé, trovando soluzioni originali e qualificate. Il rischio di queste esperienze è che vengano sottostimate dalla stessa persona che le realizza, non considerate nel loro valore clinico». In questo senso tutti i due i percorsi proposti vogliono essere prima di tutto un luogo in cui condividere pratiche e pensieri sul ruolo e sul lavoro che si conduce.
Giovanna Di Pasquale. Il parallelo fra ciò che succede in formazione e ciò che caratterizza la quotidianità dell’operatore è il punto di qualità di una prospettiva formativa non circoscritta all’idea del dare forma all’altro né a una didattica della sessualità e un punto di criticità. Questo parallelo in alcune persone può essere evidente: imparo non solo perché tu mi dici delle cose, ma perché condivido un tempo e rivivo meccanismi e dinamiche che avvengono in ogni gruppo di lavoro, ma non è certo un processo di comprensione scontato per tutti. Quando la formazione non è solo trasmissione di contenuti, ma condivisione di tempi e spazi, parole e silenzi e riflessione su ciò che accade, necessita di tempi lunghi per essere compresa, diventa un percorso di accompagnamento. Anche noi abbiamo pensato a uno stage di approfondimento, per continuare a lavorare sulla possibilità di un gruppo di essere tale, con tutta la fatica e la risorsa che questo porta con sé.
Cultura, media e istituzioni
Sono passati quasi 23 anni da quando sul Corriere della Sera, in una rubrica sulla condizione degli handicappati, dopo il tempo libero e le barriere architettoniche, Camillo Valgimigli, neuropsichiatra modenese, pose il problema "sessualità" e soprattutto le ipocrisie e i silenzi che questo tema nasconde.
Forse, senza rendersene conto allora, Valgimigli sottolineava una svolta nella cultura che circonda l’handicap, come dire: «Ammesso che per la persona con handicap rimanga un po’ di tempo libero inteso nella accezione comune, e ammesso che, abbattute le barriere, questo fortunato possa trovarsi in giro a vedere che aria tira, a questo punto può rendersi reale la possibilità di chiedersi cosa farne del suo essere persona sessuata».
Non è solo per fare una battuta che abbiamo immaginato a questo punto il famoso amico a quattro ruote che, nel mezzo della piazza, si guarda intorno con l’occhio furbo per vedere su quale occasione buttarsi; dopo essersi liberato da fisioterapisti e apparecchi ortopedici, aver tirato giù scalinate e gradini, aver terminato il lavoro in un qualche laboratorio protetto. Il tempo libero presuppone un tempo occupato in cui si riveste un ruolo socialmente riconosciuto, ma questo tempo è spesso un lusso per una persona handicappata, presuppone un inserimento avvenuto, un’autonomia di gestione personale spesso improbabile. Lo stesso vale per le barriere architettoniche: presuppone in ogni caso una cultura cittadina che consideri l’handicap sempre presente nella propria vita.
A questo punto è lecito chiedersi che cosa c’entri il tema della sessualità. Le risposte potrebbero essere molte e pertinenti, ma si possono forse accomunare in un dato "storico": l’handicap adulto è una realtà nuova sul mercato dei servizi. Non perché prima nessun handicappato raggiungesse l’età adulta, ma perché consumava i suoi giorni in istituti conosciuti a pochi, oppure all’interno della famiglia. In questi contesti la realtà che emergeva e che emerge violentemente e paradossalmente è quella del sesso colorato di incesto, di violenza, di prevaricazione, ed è quella che viene riportata sulla cronaca dei giornali e non solo. La sessualità esiste per l’handicappato, ma emerge a tinte fosche e sottolinea la diversità, la non autonomia. Il dato di una sessualità come parte integrante di ciascun individuo non è nell’handicap un dato acquisito; basti pensare a quanti siano i fiocchi rosa o azzurri che ornano le porte delle case dove nascono bambini handicappati; nascere maschi o femmine è l’abc della sessualità.
Nella cultura in cui siamo immersi ciò è avvenuto forse perché l’argomento sessualità è sempre stato abbinato a situazioni di rottura, di disobbedienza, di istinto liberato e quindi pericoloso, da gestire e tenere sotto controllo.
Pensate a un tema con tal caratteristiche affiancato a quello della diversità, dell’emarginazione, della malattia e della morte che l’handicap porta dentro di sé nella cultura in cui siamo immersi: una miscela esplosiva. Ecco allora che una soluzione per non dover affrontare questa miscela diventa quella di negare, con più o meno consapevolezza, che la persona handicappata, in quanto proprio persona, sia sessuata. E proprio l’handicap è il fattore che facilita questo meccanismo, con le sue realtà, spesso, di dipendenza fisica e psicologica. Questo era il contesto culturale che ci ha accompagnato da quel lontano ‘77 ad oggi. Paradossalmente si può dire che nulla è cambiato e contemporaneamente una piccola rivoluzione è avvenuta; dipende dall’osservatorio che scegliamo.
Per quanto riguarda i media, il tema della sessualità è stato oggetto di scarsissime ricerche e parrebbe che televisione e cinema svolgano un ruolo assai più positivo della stampa quotidiana. Scrive Franca Roncarolo(2): «Nelle trasmissioni televisive gli esempi sono rari ma significativi; si va dalla storia di Lassie in cui una ragazzina fa apertamente i conti con l’imbarazzo di un aspirante boy friend in sedia a rotelle ... al ragazzo divenuto disabile che alla trasmissione "Perdonami" chiede scusa alla ex fidanzata ... Il punto è che, a differenza di quanto accade per altri temi, nelle rappresentazioni televisive delle relazioni amorose e sessuali i problemi sono riconosciuti come tali, esplicitati e fatti oggetto di tentativi vari di elaborazione. Il che, forse, è un modo per iniziare a metabolizzarli e, lentamente, a risolverli».
Sulla stampa quotidiana invece tutto rimane immutato. In una ricerca da noi pubblicata nel 1990(3), il 90% degli articoli dedicati dalla stampa a questa tematica era legato a episodi di violenza, scandalistici o connessi ai temi dell’aborto e della sterilizzazione.
"Sesso e violenza tra handicappati", "L’indomabile pornografo paralitico", "Ha punito la sorella minorata che aveva ceduto alla corte di un saltimbanco di colore con un mattarello", "Se la bella paraplegica posa su Playboy", "Amori, orge , violenze tra handicappati", "Minorata psichica violentata dal fratello": e ci fermiamo qui. Nulla cambia in una ricerca svolta alcuni anni dopo(4): sempre legati ai temi della violenza circa il 90% degli articoli.
Perché è necessario pubblicizzare tanto la violenza sessuale sugli handicappati? La sessualità di chi è diverso mette in crisi i nostri schemi, mette a nudo le nostre zone d’ombra. Quindi, la violenza sessuale sull’handicappato diventa strumento di fuga da queste paure. Non si tratta solo di "punire" la diversità dell’handicappato, ma anche e soprattutto di riaggrapparci alla normalità.
Sicuramente una maggiore consapevolezza del tema si è sviluppata negli ultimi dieci anni all’interno delle associazioni di handicappati e loro famigliari. Si tratta ancora di primi passi, di approcci che tendono a farne una tematica specifica, ma almeno se ne parla e molti sono stati gli articoli sulle riviste di categoria e le iniziative attivate come conferenze e seminari. Tra tutte ci pare utile segnalare le iniziative delle sezioni Anffas di Varese e Prato(5), che hanno dato continuità al loro lavoro.
Per quanto riguarda l’atteggiamento delle stesse persone handicappate, intese non come singoli, ma come gruppo sociale, si riscontra ovviamente un desiderio e un bisogno enorme di parlare di questo tema; c’è chi lo fa come testimonianza in volumi autobiografici, in interventi durante il dibattito dei convegni, in articoli sulle riviste delle associazioni. Ma c’è anche la corrente "rivendicativa", legata ai gruppi che fanno riferimento alla filosofia della independent living, che pone il tema come j’accuse nei confronti della società, spesso utilizzando modalità provocatorie come le recenti foto osé di una cantautrice handicappata e del suo compagno.
Infine qualcosa si è mosso anche nei servizi dell’ente locale o gestiti in convenzione da cooperative e associazioni. Quasi tutte le richieste di formazione fatte al Cdh provengono da questi ambiti, in particolare da chi gestisce strutture semiresidenziali (centri diurni socio-educativi), mentre molto più ridotto è l’interesse da parte di strutture di formazione professionale o prettamente clinico-riabilitative. Anche valutando il lavoro formativo si osserva un’evoluzione dell’atteggiamento degli operatori e dei responsabili dei servizi in termini di maggiore consapevolezza.
Maria Cristina Pesci e Andrea Pancaldi
 
Web Contacts  Top
view post Posted on 3/11/2011, 21:40
Avatar

Member

Group:
Member
Posts:
747

Status:


che bell'articolo compà :)))
 
Top
lino742006
view post Posted on 4/11/2011, 11:26




bellissimo
 
Top
giusira
view post Posted on 5/11/2011, 20:30




interessante
 
Top
view post Posted on 7/11/2011, 11:32
Avatar

Member

Group:
Member
Posts:
747

Status:


[QUOTE=dipasq,3/11/2011, 19:26 ?t=58531719&st=0#entry477470756]
È alla fine degli anni ‘80 che si apre il dibattito sull’affettività e sessualità delle persone con handicap ponendolo all’attenzione di genitori, operatori, servizi socio-educativi, assistenziali e riabilitativi. Aumentata la disponibilità di informazione sul tema, vengono avviati progetti di ricerca per dare continuità alla formazione. Dunque, non si è più all’anno zero, anche se la strada da percorrere appare ancora lunghissima. Handicap e sessualità: quasi un paradosso che cavalcato oculatamente può preludere a un’evoluzione culturale. I contributi riportati rilevano i vissuti degli operatori e il ruolo insostituibile della formazione di tutti i protagonisti.
RIBALTAMENTO DI PROSPETTIVA
ANCHE IL DISABILE È SESSUATO
di MARIA CRISTINA PESCI e ANDREA PANCALDI
(rispettivamente sessuologa, psicoterapeuta e
responsabile settore documentazione del Cdh)
I significati, il valore, il senso che ciascuno dà al termine sessualità non è mai svincolato dalla storia che ciascun individuo rappresenta con il suo stesso vivere, sentire, manifestare. Ciascuna di queste rappresentazioni ha inoltre, dentro di sé, parti conosciute, consapevolmente ragionate, scelte e parti nascoste, ma che ugualmente vanno a costruire il senso che ciascuno dà alla sessualità. Così la sessualità è legata a due dimensioni fortemente intrecciate: una rimanda alla relazione, al desiderio di incontro e scambio globale da cui è difficile dissociare le diverse componenti quali la genialità, l’erotismo, la corporeità, la ricerca del piacere, i sentimenti d’amore e d’affetto.
Diventa piacere di comunicazione rispetto alle proprie sensazioni e piacere di ricevere sensazioni dagli altri con i gesti, con la voce, con lo stare insieme, con il corpo. La sessualità, in fondo, è una dimensione legata al piacere-desiderio di essere oggetto, e soggetto di desiderio e piacere.
La seconda dimensione propone la sessualità come espressione diretta della soggettività di ogni singola persona. Un processo che parte dal piacere della sensorietà e motricità, dalla cura di sé, dal senso stesso dell’esistere, della propria identità e unicità.
Il riconoscimento di queste componenti fa parte di un processo di crescita e di evoluzione che accompagna tutto l’arco della vita di ciascuna persona e che influenza l’identità personale, la corporeità, lo scambio con gli altri. Inoltre la sessualità evoca due ordini di pensieri ed emozioni: una legata al piacere, al desiderio, all’espansione e all’evoluzione di sé dei legami, espressione di energia e forza vitale e creatrice, ossia un insieme di aspetti positivi, giocosi spesso idealizzati (sessualità buona); l’altra, di contro, legata a percorsi più oscuri, che evocano disorientamento, eventuale solitudine e mancanza, prevaricazione e aggressività (sessualità cattiva).
Spostare l’ottica attraverso cui guardare il tema della sessualità è uno dei passaggi fondamentali per parlare di sessualità e disabilità, partendo dalla propria rappresentazione, dai propri valori e sentimenti in qualità di persone che comunque convivono con la propria soggettiva strutturazione delle numerose componenti che la sessualità racchiude.
Ognuno parte dalla propria immagine di sessualità nell’affrontare questo tema e nell’ascolto di ciò che l’altro esprime.
Spesso gli operatori avvertono questa premessa e sperimentano questa consapevolezza come una sorpresa che comunque cambia radicalmente l’ottica da cui elaborare riflessioni e interventi educativi; la conseguenza più evidente è quella che trasforma l’aspettativa di parlare di sessualità e approfondire il tema legato alla disabilità, nell’opportunità di elaborare la dimensione sessuale di una relazione che è costituita da due poli: l’operatore e l’utente, il paziente, e ciò che quella coppia crea di volta in volta con il reciproco interagire, sentire, cogliere dell’altro.
Paradossalmente "diventare carne" (spesso abbiamo usato questo titolo di poesia per evocare questo tema) rinvia a un significato che vuole riconosciuta la sostanza stessa della persona, la carne, quasi dimenticando come chi vive sulla propria pelle la presenza di una malattia, di un deficit o di un disagio, molto spesso è sottoposto a continue manipolazioni e invasioni della propria dimensione corporea senza che nessuno ricordi gli aspetti emotivi, i sentimenti e le emozioni che ogni relazione di cura va a determinare.
Tra cura e relazione
La sessualità spesso irrompe dentro ai progetti educativi o nell’ordinamento della vita quotidiana di una struttura; si presenta come qualcosa di inatteso, che sorprende e scombina i piani e che provoca negli operatori (e nei familiari) un forte senso di disagio e timore d’essere inadeguati.
Credo che in entrambi i casi, attesa o dimenticata, la sessualità getta spesso scompiglio, disordine, manda all’aria il modo concreto e quotidiano del "prendersi cura", fa sentire impotenti le più avanzate strutturazioni e conoscenze tecniche e i più rigorosi ordinamenti (gerarchie, il chi si prende cura di chi, il sapere della cura quotidiana dell’operatore, i progetti educativi e i percorsi individuali).
Le strutture che, per paradosso, si dotano dei più elaborati ordinamenti e divieti in ordine alla sessualità e alla sua più rigorosa esclusione dalle attività e dagli argomenti di cui gli operatori si possono occupare sono la concreta dimostrazione dell’impotenza e della forza dirompente che accompagna questo tema, negato o annunciato che sia.
La sessualità porta comunque con sé numerose prospettive di cambiamento, e viceversa la disponibilità nella cura all’altro ad avere antenne ricettive e in sintonia rispetto ai cambiamenti dell’utente promuove facilmente l’incontro con il tema della sessualità, con la sessualità dell’utente e inevitabilmente con la propria sessualità in qualità di operatori e persone.
Alcuni significati che la sessualità racchiude, alcuni piaceri rappresentati dalla sessualità hanno sorprendentemente grandi territori di comunicazione e spazi emotivi in comune con la professione di cura, con il senso di prendersi cura di.... e con l’esistenza del piacere collegato a esso, cioè, con il piacere di prendersi cura.
Per fare esempi, se pure schematici, possiamo considerare il piacere della sensorietà e motricità che la sessualità racchiude come occasione di numerosissime azioni, gesti, attenzioni che l’operatore compie nell’occuparsi di una persona con deficit (motòri, mentali, emotivi, psichici).
Il piacere che viene dal corpo, dalle sue sensazioni (essere toccato, contenuto, spostato, pulito, nutrito, cambiato) fa parte di quei piaceri primari che costruiscono, nello sviluppo di ciascuno, l’essenza di sentirsi vivi, dell’esserci, del benessere; i primi pilastri del senso della propria identità separata ed egualmente in comunicazione con il mondo, con l’altro.
Quanta parte del lavoro di cura con persone con deficit è attraversata da questa dimensione primaria di contatto e comunicazione!
Questa dimensione della sessualità, simile per ogni individuo, parte fondante della propria storia e del senso di sé, è di fatto uno spazio comune tra due persone che si trovano a contatto e che quindi inevitabilmente mettono in comunicazione aspetti tanto profondi ed emotivamente significativi.
La sessualità quindi impone, anche nell’operare quotidiano e per quelle funzioni che possono più facilmente richiamare alla mente "il fare", un’area di contatto con il piacere e con la sua mancanza, evocata dalla presenza del deficit e quindi dalla permanenza indefinita del bisogno d’essere oggetto della cura dell’altro.
La sessualità produce identificazioni rapide, inconsapevoli, spesso turbolente a questo livello di vicinanza.
Da questo punto di vista essa offre aperture verso il centro profondo di sentirsi soggetto-individuo, ma contemporaneamente può provocare oscure ribellioni rispetto alla percezione di sentirsi limitati, dipendenti, bisognosi, in balìa dell’altro.
Cosa succede nell’operatore che si trova, più o meno consapevolmente, a contatto con questo aspetto della sessualità, con il piacere e il disagio che di fatto scaturisce dal contatto dei corpi di chi cura e di chi è oggetto di cura?
Sotto questa visione il piacere/disagio che può venire dal corpo e dal prendersi cura sono un terreno conosciuto e praticato ogni giorno nella relazione operatore/utente di fatto già impegnati su un territorio che appartiene anche alla sessualità.
Un esempio di quanto affermato si ritrova nei percorsi di autonomia rispetto alla cura di sé, del proprio corpo e dei rapporti con gli altri (vestirsi, tenersi puliti, scegliere i propri abiti, farsi belli, conoscere nomi e funzioni del corpo, le sue parti pubbliche e quelle più intime e private), che sono in fondo un ambito in cui è comunque inclusa una parte della sessualità e può aprire molte altre strade di contatto o distanziamento.
Aspetti problematici
La sessualità può, per contro, produrre e mettere in atto atteggiamenti di rifiuto all’interno della relazione operatori-utenti, di negazione delle somiglianze nonostante le differenze, di vere e proprie segregazioni dei corpi, delle loro espressioni, dei loro bisogni: una riesumata segregazione di chi è diverso, meno autonomo, con minori opportunità.
La paura delle espressioni della sessualità e del suo "coinvolgere" può disorientare l’operatore che si sente oggetto privilegiato d’amore, di attenzioni, di richieste da parte della persona di cui è chiamato a prendersi cura. Nella stessa misura può essere conflittuale e destabilizzante "assistere" e cogliere il desiderio, il piacere, gli affetti che possono coinvolgere gli utenti nelle più disparate combinazioni.
Questi aspetti problematici possono provocare una specie di svilimento dei sentimenti delle persone coinvolte e ridurre le dinamiche emotive al puro istinto; provocare nuove giustificazioni al controllo inteso come prevaricazione sull’altro dotato di meno potere.
Di fatto molte richieste di consulenza, supervisione e formazione sul tema della sessualità includono, spesso ben nascoste agli stessi richiedenti, il bisogno di neutralizzare, deviare o sedare le espressioni in ordine ai temi dell’affettività, dell’erotismo e di ogni altra componente.
È indispensabile avere un’attenzione speciale per comprendere a quali bisogni si intende rispondere e da quali necessità, più o meno visibili, si è motivati. Può succedere che l’operatore si ritrovi schiacciato tra il desiderio, che è anche un mandato professionale di dare ascolto, accoglienza e disponibilità all’espressione dell’utente, e il dovere di controllare, impedire, neutralizzare.
Spesso dar voce alle preoccupazioni degli operatori sul tema della sessualità implica aprire spazi di riflessione riguardo a numerose istanze: le difficoltà legate al dovere di frustrare o soddisfare le richieste dell’utente e delle famiglie; misurarsi con il senso di colpa di usufruire di una qualità e quantità di libertà anche sessuali e relazionali sentite come molto più ampie e soddisfacenti rispetto alle persone di cui ci si cura professionalmente; costruire di volta in volta modalità appropriate per affiancare l’altro bisognoso, e a disagio nella sua solitudine, di senso di impotenza, di tristezza o ribellione; stare con l’altro piuttosto che fare-risolvere-agire a tutti i costi, così come il mandato istituzionale molto spesso esige.
Per concludere questa riflessione riprendo il contributo(1) di più autori a proposito della cura del bambino prematuro, contributo che può essere esteso significativamente alla dimensione di cura e a quanto può essere modificata dalla rielaborazione possibile all’interno di percorsi formativi, i cui spazi e tempi diventano luoghi per avviare un confronto capace di mettere in luce le similarità e le differenze, fra la realtà quotidiana praticata e altre impostazioni di lavoro.
Gli operatori, stimolati dalle proposte e dalle modalità di intervento discusse nei casi formativi, ma consapevoli delle difficoltà, delle risorse a disposizione e dell’organizzazione delle strutture in cui lavorano, potrebbero essere scoraggiati dalla prospettiva di tentarne un’applicazione.
Le reazioni di fronte alla sensazione di impotenza e di frustrazione potrebbero comprensibilmente emergere nel valutare questi messaggi interessanti, ma non fattibili.
Si può suggerire, come punto di partenza, la costruzione di un gruppo, anche ristretto, preferibilmente multidisciplinare, di operatori motivati con il compito di analizzare il proprio contesto di lavoro, le priorità in relazione all’attuabilità delle innovazioni da introdurre e di stabilire appuntamenti da raggiungere a breve e a lungo termine.
Vanno inoltre stabiliti criteri e modalità per cogliere l’utilità e l’indirizzo dei cambiamenti operati nelle tre aree del benessere dell’utente, delle famiglie e degli operatori che di essi si prendono cura.

Punti di vista complementari
La nostra esperienza ci ha insegnato che è possibile introdurre cambiamenti positivi e progettare percorsi che hanno come fondamento il reale ascolto dei bisogni di ogni entità coinvolta. L’associazione Centro di documentazione handicap di Bologna conduce da alcuni anni un’intensa esperienza formativa sui temi della relazione d’aiuto e delle professioni di cura. In particolare una parte consistente del lavoro formativo tocca il tema del rapporto fra handicap e sessualità.
Alcuni cambiamenti sociali e culturali, ormai da tempo avviati nel campo dell’integrazione delle persone disabili, hanno reso evidente la necessità di considerare la persona handicappata nella sua globalità e quindi anche riconoscendole la propria identità sessuale. Contemporaneamente la consapevolezza degli aspetti relazionali all’interno del lavoro sociale ed educativo permette il riconoscimento di una serie di istanze che coinvolgono il rapporto educatore-utente anche sui temi strettamente legati alla sfera sessuale e affettiva. Entrambi questi aspetti rappresentano fra i principali motivi che hanno reso sempre più frequente la richiesta di supporto e di formazione sul tema della sessualità, affettività e handicap, richiesta che rimanda in modo forte al desiderio di mettere in comune le esperienze di ognuno per ritrovare una chiave di comprensione.
Le conduttrici degli stage formativi del Cdh arricchiscono questo dossier con una riflessione a più voci sugli snodi significativi emersi negli anni dal lavoro diretto con i partecipanti.
Maria Cristina Pesci (sessuologa e psicoterapeuta). Occuparsi di sessualità comporta essenzialmente due ordini di riflessioni: uno riguarda l’inevitabile coinvolgimento all’interno della relazione con l’altro, il secondo implica un rimando prima di tutto a se stessi, al di là delle difficoltà che l’altro propone. Se pensiamo al lavoro di "cura" a cui rispondono gli operatori, molti aspetti dell’agire quotidiano contengono in sé dimensioni legate alla vicinanza, alla corporeità, alla comunicazione affettiva e relazionale che rientrano di diritto anche in un generale concetto di sessualità. In sintesi, molti aspetti della "cura" all’altro già rappresentano, spesso inconsapevolmente, la presa in carico di tematiche che la sessualità propone. Molte competenze del fare quotidiano hanno incluse risorse che affrontano la sessualità e i suoi significati. Svelata questa dimensione del lavoro di cura, la sessualità può essere un territorio di conoscenza e interazione ricca e feconda.
Marina Maselli (pedagogista). Uno degli elementi che accomuna chi lavora in servizi diversi (scuola, centri diurni, case di riposo, strutture residenziali o semiresidenziali) è l’affermazione iniziale: «Io di questo tema non so nulla, è un tema che mi spaventa, mi mette a disagio, ho bisogno di indicazioni concrete», che è poi quello che porta ad avere delle aspettative sul corso molto legate alla ricerca di soluzioni immediate. Ed è proprio questo il nocciolo da cui partiamo nella proposta formativa, chiedendoci: «Ma davvero questo è un tema rispetto al quale ognuno di noi, anche senza percorsi formativi specifici, non sa nulla? La sessualità non è forse una componente fondamentale della persona»? Senza dubbio si tratta di un aspetto che fatica a trovare spazio nella quotidianità degli operatori. È una dimensione celata che sembra rivendicare uno spazio nel momento in cui si manifestano situazioni di disagio o difficoltà. E ciò non è esclusivamente legato alla presenza di un deficit. Molto del primo lavoro è riequilibrare questa situazione, di contestualizzarla e rivederla nella quotidianità.
Daniela Lenzi (psicosessuologa). Nella nostra impostazione lavoriamo molto su ciò che sta accadendo dentro al gruppo, in quel momento, rispetto all’argomento, cercando di mettere in evidenza quali sono i meccanismi che scattano sia nel singolo che nel gruppo quando si va a toccare il tema della sessualità e dell’handicap, comunque in generale della sessualità. Ci troviamo a sottolineare come il nostro metodo di lavoro non è tanto dare informazioni su di un tema da studiare perché sconosciuto quanto aiutare loro a capire i meccanismi che scattano quando si vanno a toccare certi nodi. Spesso il lavoro sui casi è esemplare per far risaltare quello che sta succedendo lì fra gli operatori. Partire dal singolo operatore, dal gruppo per vedere come non c’è una scienza specifica sull’argomento, ma ognuno ci mette del suo nel parlarne, nell’ascoltare, nel pensarsi. Questo è un elemento che caratterizza l’impostazione che intendiamo praticare: il lavorare sul qui e ora di ogni specifico gruppo.
Maria Cristina Pesci. Un’altra riflessione centrale del modo di intendere la formazione su questo tema è legata all’attenzione posta su quei meccanismi universali che esistono quando ti trovi di fronte a una dimensione di relazione, in cui la sessualità è qualcosa di così specifico. «Cosa accade a me, cosa accade all’altro», e questo è in parte legato al tipo di difficoltà che l’altro di cui tu ti curi ha, ma solo in parte. C’è quindi sempre uno sfondo precedente, che sottende la relazione portante. «Perché con alcune persone la stessa masturbazione, ad esempio, non mi dà disagio e con altri utenti mi mette in difficoltà»? Con ogni persona esiste un significato e una relazione specifica, anche rispetto al tema così preciso come la masturbazione.
È il riconoscimento che questi temi universali non hanno a che fare esclusivamente con un certo tipo di disagio o di deficit, che avvia un percorso che può diventare innovativo anche nella quotidiana progettazione educativa.
Giovanna Di Pasquale (pedagogista). Nella ricerca di quale senso dare a un percorso formativo sul tema della sessualità e dell’handicap, mi sembra centrale l’idea di toglierlo dal luogo della non parola, come se questo tema, così forte e centrale per tanti aspetti sia personali che di ruolo, scivoli nel non detto. È questo un terreno difficile su cui poco si riesce a costruire degli spazi in cui, prima di parlare di soluzioni, si possa ragionare. Su altri aspetti della relazione di aiuto forse si può correre il rischio opposto di enfatizzare, ma comunque ci si sente liberi di esprimersi. Ad esempio per l’aggressività: un operatore si può sentire libero di vederlo come problema e di esporlo così. Sulla sessualità questo non avviene; dentro al ruolo professionale si fa fatica a trovare una possibilità (uno spazio/tempo) anche semplicemente per dire: mi sento così. I meccanismi che emergono nei gruppi vengono fuori come se fosse una prima volta, magari perché per molti è davvero una delle prime occasioni per parlare di certe situazioni, per dare un nome a quello che si sente.
Maria Cristina Pesci. La sessualità è un tema che sottolinea e rende più visibili elementi che attraversano altre tematiche e che fanno parte dell’operatore, del suo mettersi in relazione e prendersi cura dell’altro. La sessualità, rendendo più visibile alcuni meccanismi, porta a riflettere su cosa significa lavorare in una professione in cui tu ti prendi cura dell’altro, che si propone come bisognoso e dipendente e in cui in qualche misura ci si sostituisce alla famiglia. Il tema della sessualità non è un tema ristretto, non può essere legato a un apporto solo tecnico e specifico ma anzi permette di ragionare ad ampio raggio sul senso del proprio ruolo e delle proprie azioni, all’interno della dimensione ampia della relazione di aiuto e di cura e nei suoi collegamenti sia con altri importanti interlocutori come la famiglia, sia con alcune tappe dello sviluppo personale particolarmente significative come l’adolescenza o la conclusione di quella che è definita età evolutiva.
Daniela Lenzi. Per capire meglio il lavoro che proponiamo è importante chiarire i rapporti fra il contributo psicoanalitico e quello pedagogico. Anche perché fra gli approcci psicologici, quello psicoanalitico è generalmente quello che si è avvicinato meno alla pedagogia e viceversa. Anzi per lungo tempo sono stati quasi antagonisti, mentre è necessario tenere accostati questi due contributi.
Marina Maselli. Man mano che il discorso all’interno dei gruppi si sviluppa e procede verso uno scambio e confronto più attivo, due concetti vengono alla luce: "sessualità " e "disordine", dando vita a una riflessione più ampia. L’affermazione che la sessualità è disordine rimanda alla complessità della relazione educativa. Quando siamo in una relazione educativa siamo in una situazione di complessità, che non è l’elogio della complicazione, ma la consapevolezza della compresenza di molte dimensioni emotive, organizzative, formative. Ragionare in termini di complessità significa anche riappropriarsi di una dimensione precisa come è quella delle emozioni che in alcuni approcci pedagogici viene negata in nome di una presunta scientificità. Ciò che privilegiamo è il punto di vista del vissuto dell’operatore, perché la comprensione dell’altro passa dal riconoscimento delle tue emozioni. Questo è un aspetto che ci accomuna: l’idea che lavorare in educazione comporta una dimensione non sempre prevedibile. E questo vale per gli adulti come per i piccolissimi. Il tema della sessualità mette in luce proprio l’aspetto dell’imprevisto, ciò che non riesco a codificare. Spesso la sessualità fa esplodere in modo macroscopico elementi che sono legati alla fatica di governare l’imprevisto di stare dentro alla relazione che ci chiede di fare i conti con molte componenti.
Giovanna Di Pasquale. Ripensando a come è nata la proposta di coniugare i contributi pedagogici e psicologici, due elementi hanno funzionato da stimolo nel farmi pensare a questa collaborazione in termini di crescita e arricchimento reciproco e mi hanno convinta della possibilità di riuscire a conciliarli. Il primo elemento si richiama all’idea di ricongiungimento delle parti, rimettere insieme, restituire un’armonia al di dentro e al di fuori. «Ciò che mi succede dentro ma anche come tutto questo ha un forte riflesso su quelle che sono le mie azioni, le mie strategie, i modi visibili». Questo per evitare la frattura di un approccio psicologico che indaga la dimensione intima, non riuscendo a coniugarsi con la possibilità d’essere ricondotta all’esterno e di una pedagogia vista come scienza dell’azione che lavora in modo separato dalle sfere esterne. Un elemento di forza del percorso formativo è proprio il tentativo di tenere unito nella formazione ciò che nella quotidianità è davvero inscindibile.
Il gruppo come risorsa
L'altro elemento convincente è il desiderio, il tentativo di trasformare la richiesta che viene dai partecipanti del "sapere sull’altro" (voglio sapere delle cose sull’altro perché comunque il problema, la sessualità è dell’altro) in: vediamo come questa situazione tocca me, cosa fa risuonare in me. Capire cosa può rappresentare per me. Se tocca qualcosa nell’altro, tocca qualcosa anche di me. C’è in tocca qualcosa anche di me. C’è in questo un forte richiamo alla dimensione pedagogica della relazione educativa come profondamente implicante: implica l’altro, ma tira dentro anche me. Non si può guardare l’altro senza tenere conto che ci sei anche tu dall’altra parte.
Marina Maselli. Un’altra cosa che ho sperimentato come elemento di crescita comune con i partecipanti è la possibilità di prendersi un tempo. Tempo per aspettare le risposte che vengono dal gruppo, ma anche un tempo che è fatto di silenzi, di pause di riflessione. Se chi conduce il percorso ha in mente un’idea di "formatore" che fornisce risposte immediate, il tempo dell’attesa può essere vissuto con un forte senso di disagio e di frustrazione. Ma se la prospettiva è quella di dare corpo a un lavoro che cerca di fare dialogare le varie forme di sapere, allora la maggior ricchezza sta proprio nell’avere più sguardi sulla situazione.
Maria Cristina Pesci. Il gruppo come risorsa costituisce un forte parallelo con l’operare quotidiano del rapporto fra l’operatore e l’utente. Da una parte è chiamato a dare subito risposte e dall’altra avverte la necessità di darsi un tempo in cui è ancora necessario comprendere. Un tempo non fatto di vuoto, ma di risorse che si devono mettere in moto, rendersi visibili attraverso l’apporto dei pensieri delle diverse persone.
Come conduttrici ricerchiamo l’equilibrio fra il soffermarsi su alcune questioni in qualche modo già preordinate e il saper seguire le direzioni che il gruppo prende nel momento in cui sta elaborando e discutendo per vedere dove porta quella riflessione, dove porta quella situazione. Arrivando magari a qualcosa d’altro che non era previsto. In questo vedo un forte collegamento fra un approccio educativo-pedagogico e un approccio psicoanalitico legato alle emozioni. Mediare in modo tale da non essere sempre e solo in balìa di emozioni che poi non sai governare, in te e nell’altro, e nello stesso tempo non essere sempre dietro a un percorso che avevi già pensato anticipatamente.
Marina Maselli. È un po’ come ridare dignità a una dimensione lasciata ai margini. È anche evitare che un tema come questo diventi terreno di parcellizzazione esclusivamente specialistico, diventi occuparsi di una parte di quella persona.
Maria Cristina Pesci. In effetti la sessualità è una dimensione molto nascosta che idealmente si tende a percepire come separata nella relazione che spesso viene vista, sia dall’istituzione che dalle persone interessate, come asessuata.
Daniela Lenzi. Il "ripartire dall’operatore" all’inizio è la cosa che lascia più sbalorditi i partecipanti, ma alla fine del lavoro diventa la loro prima risorsa, capire che dentro di loro c’è in qualche modo anche la risposta. Nel loro modo di essere c’è la visione della relazione con l’altro, ma c’è anche la possibilità di modificarla. Lavorare sull’operatore non significa solo metterlo in crisi ma ritrovare nelle risposte che ognuno si è dato un punto di partenza per la quotidianità.
Marina Maselli. Nel lavoro di approfondimento, questi aspetti si rafforzano e precisano ulteriormente. Il tentativo è quello di mettere in luce le competenze, gli strumenti che gli operatori già hanno. Ricordo un contributo di Giancarlo Rigon, neuropsichiatra, in cui ripensando al lavoro svolto nei gruppi di supervisione afferma: «Sono persone che lavorano nei servizi territoriali, sono persone che sanno fare cose straordinarie e spesso le fanno perché sono capaci di misurarsi con un’entità, qualità e variabilità dei problemi ai quali viene mediamente data una buona risposta mettendo molto spesso, in questa ricerca di risposte, il meglio di sé, trovando soluzioni originali e qualificate. Il rischio di queste esperienze è che vengano sottostimate dalla stessa persona che le realizza, non considerate nel loro valore clinico». In questo senso tutti i due i percorsi proposti vogliono essere prima di tutto un luogo in cui condividere pratiche e pensieri sul ruolo e sul lavoro che si conduce.
Giovanna Di Pasquale. Il parallelo fra ciò che succede in formazione e ciò che caratterizza la quotidianità dell’operatore è il punto di qualità di una prospettiva formativa non circoscritta all’idea del dare forma all’altro né a una didattica della sessualità e un punto di criticità. Questo parallelo in alcune persone può essere evidente: imparo non solo perché tu mi dici delle cose, ma perché condivido un tempo e rivivo meccanismi e dinamiche che avvengono in ogni gruppo di lavoro, ma non è certo un processo di comprensione scontato per tutti. Quando la formazione non è solo trasmissione di contenuti, ma condivisione di tempi e spazi, parole e silenzi e riflessione su ciò che accade, necessita di tempi lunghi per essere compresa, diventa un percorso di accompagnamento. Anche noi abbiamo pensato a uno stage di approfondimento, per continuare a lavorare sulla possibilità di un gruppo di essere tale, con tutta la fatica e la risorsa che questo porta con sé.
Cultura, media e istituzioni
Sono passati quasi 23 anni da quando sul Corriere della Sera, in una rubrica sulla condizione degli handicappati, dopo il tempo libero e le barriere architettoniche, Camillo Valgimigli, neuropsichiatra modenese, pose il problema "sessualità" e soprattutto le ipocrisie e i silenzi che questo tema nasconde.
Forse, senza rendersene conto allora, Valgimigli sottolineava una svolta nella cultura che circonda l’handicap, come dire: «Ammesso che per la persona con handicap rimanga un po’ di tempo libero inteso nella accezione comune, e ammesso che, abbattute le barriere, questo fortunato possa trovarsi in giro a vedere che aria tira, a questo punto può rendersi reale la possibilità di chiedersi cosa farne del suo essere persona sessuata».
Non è solo per fare una battuta che abbiamo immaginato a questo punto il famoso amico a quattro ruote che, nel mezzo della piazza, si guarda intorno con l’occhio furbo per vedere su quale occasione buttarsi; dopo essersi liberato da fisioterapisti e apparecchi ortopedici, aver tirato giù scalinate e gradini, aver terminato il lavoro in un qualche laboratorio protetto. Il tempo libero presuppone un tempo occupato in cui si riveste un ruolo socialmente riconosciuto, ma questo tempo è spesso un lusso per una persona handicappata, presuppone un inserimento avvenuto, un’autonomia di gestione personale spesso improbabile. Lo stesso vale per le barriere architettoniche: presuppone in ogni caso una cultura cittadina che consideri l’handicap sempre presente nella propria vita.
A questo punto è lecito chiedersi che cosa c’entri il tema della sessualità. Le risposte potrebbero essere molte e pertinenti, ma si possono forse accomunare in un dato "storico": l’handicap adulto è una realtà nuova sul mercato dei servizi. Non perché prima nessun handicappato raggiungesse l’età adulta, ma perché consumava i suoi giorni in istituti conosciuti a pochi, oppure all’interno della famiglia. In questi contesti la realtà che emergeva e che emerge violentemente e paradossalmente è quella del sesso colorato di incesto, di violenza, di prevaricazione, ed è quella che viene riportata sulla cronaca dei giornali e non solo. La sessualità esiste per l’handicappato, ma emerge a tinte fosche e sottolinea la diversità, la non autonomia. Il dato di una sessualità come parte integrante di ciascun individuo non è nell’handicap un dato acquisito; basti pensare a quanti siano i fiocchi rosa o azzurri che ornano le porte delle case dove nascono bambini handicappati; nascere maschi o femmine è l’abc della sessualità.
Nella cultura in cui siamo immersi ciò è avvenuto forse perché l’argomento sessualità è sempre stato abbinato a situazioni di rottura, di disobbedienza, di istinto liberato e quindi pericoloso, da gestire e tenere sotto controllo.
Pensate a un tema con tal caratteristiche affiancato a quello della diversità, dell’emarginazione, della malattia e della morte che l’handicap porta dentro di sé nella cultura in cui siamo immersi: una miscela esplosiva. Ecco allora che una soluzione per non dover affrontare questa miscela diventa quella di negare, con più o meno consapevolezza, che la persona handicappata, in quanto proprio persona, sia sessuata. E proprio l’handicap è il fattore che facilita questo meccanismo, con le sue realtà, spesso, di dipendenza fisica e psicologica. Questo era il contesto culturale che ci ha accompagnato da quel lontano ‘77 ad oggi. Paradossalmente si può dire che nulla è cambiato e contemporaneamente una piccola rivoluzione è avvenuta; dipende dall’osservatorio che scegliamo.
Per quanto riguarda i media, il tema della sessualità è stato oggetto di scarsissime ricerche e parrebbe che televisione e cinema svolgano un ruolo assai più positivo della stampa quotidiana. Scrive Franca Roncarolo(2): «Nelle trasmissioni televisive gli esempi sono rari ma significativi; si va dalla storia di Lassie in cui una ragazzina fa apertamente i conti con l’imbarazzo di un aspirante boy friend in sedia a rotelle ... al ragazzo divenuto disabile che alla trasmissione "Perdonami" chiede scusa alla ex fidanzata ... Il punto è che, a differenza di quanto accade per altri temi, nelle rappresentazioni televisive delle relazioni amorose e sessuali i problemi sono riconosciuti come tali, esplicitati e fatti oggetto di tentativi vari di elaborazione. Il che, forse, è un modo per iniziare a metabolizzarli e, lentamente, a risolverli».
Sulla stampa quotidiana invece tutto rimane immutato. In una ricerca da noi pubblicata nel 1990(3), il 90% degli articoli dedicati dalla stampa a questa tematica era legato a episodi di violenza, scandalistici o connessi ai temi dell’aborto e della sterilizzazione.
"Sesso e violenza tra handicappati", "L’indomabile pornografo paralitico", "Ha punito la sorella minorata che aveva ceduto alla corte di un saltimbanco di colore con un mattarello", "Se la bella paraplegica posa su Playboy", "Amori, orge , violenze tra handicappati", "Minorata psichica violentata dal fratello": e ci fermiamo qui. Nulla cambia in una ricerca svolta alcuni anni dopo(4): sempre legati ai temi della violenza circa il 90% degli articoli.
Perché è necessario pubblicizzare tanto la violenza sessuale sugli handicappati? La sessualità di chi è diverso mette in crisi i nostri schemi, mette a nudo le nostre zone d’ombra. Quindi, la violenza sessuale sull’handicappato diventa strumento di fuga da queste paure. Non si tratta solo di "punire" la diversità dell’handicappato, ma anche e soprattutto di riaggrapparci alla normalità.
Sicuramente una maggiore consapevolezza del tema si è sviluppata negli ultimi dieci anni all’interno delle associazioni di handicappati e loro famigliari. Si tratta ancora di primi passi, di approcci che tendono a farne una tematica specifica, ma almeno se ne parla e molti sono stati gli articoli sulle riviste di categoria e le iniziative attivate come conferenze e seminari. Tra tutte ci pare utile segnalare le iniziative delle sezioni Anffas di Varese e Prato(5), che hanno dato continuità al loro lavoro.
Per quanto riguarda l’atteggiamento delle stesse persone handicappate, intese non come singoli, ma come gruppo sociale, si riscontra ovviamente un desiderio e un bisogno enorme di parlare di questo tema; c’è chi lo fa come testimonianza in volumi autobiografici, in interventi durante il dibattito dei convegni, in articoli sulle riviste delle associazioni. Ma c’è anche la corrente "rivendicativa", legata ai gruppi che fanno riferimento alla filosofia della independent living, che pone il tema come j’accuse nei confronti della società, spesso utilizzando modalità provocatorie come le recenti foto osé di una cantautrice handicappata e del suo compagno.
Infine qualcosa si è mosso anche nei servizi dell’ente locale o gestiti in convenzione da cooperative e associazioni. Quasi tutte le richieste di formazione fatte al Cdh provengono da questi ambiti, in particolare da chi gestisce strutture semiresidenziali (centri diurni socio-educativi), mentre molto più ridotto è l’interesse da parte di strutture di formazione professionale o prettamente clinico-riabilitative. Anche valutando il lavoro formativo si osserva un’evoluzione dell’atteggiamento degli operatori e dei responsabili dei servizi in termini di maggiore consapevolezza.
Maria Cristina Pesci e Andrea Pancaldi
[/QUOTE]


[QUOTE=gaeped,7/11/2011, 11:28 ?t=58531719&st=0#entry477947546]
[QUOTE=dipasq,3/11/2011, 19:26 ?t=58531719&st=0#entry477470756]
È alla fine degli anni ‘80 che si apre il dibattito sull’affettività e sessualità delle persone con handicap ponendolo all’attenzione di genitori, operatori, servizi socio-educativi, assistenziali e riabilitativi. Aumentata la disponibilità di informazione sul tema, vengono avviati progetti di ricerca per dare continuità alla formazione. Dunque, non si è più all’anno zero, anche se la strada da percorrere appare ancora lunghissima. Handicap e sessualità: quasi un paradosso che cavalcato oculatamente può preludere a un’evoluzione culturale. I contributi riportati rilevano i vissuti degli operatori e il ruolo insostituibile della formazione di tutti i protagonisti.
RIBALTAMENTO DI PROSPETTIVA
ANCHE IL DISABILE È SESSUATO
di MARIA CRISTINA PESCI e ANDREA PANCALDI
(rispettivamente sessuologa, psicoterapeuta e
responsabile settore documentazione del Cdh)
I significati, il valore, il senso che ciascuno dà al termine sessualità non è mai svincolato dalla storia che ciascun individuo rappresenta con il suo stesso vivere, sentire, manifestare. Ciascuna di queste rappresentazioni ha inoltre, dentro di sé, parti conosciute, consapevolmente ragionate, scelte e parti nascoste, ma che ugualmente vanno a costruire il senso che ciascuno dà alla sessualità. Così la sessualità è legata a due dimensioni fortemente intrecciate: una rimanda alla relazione, al desiderio di incontro e scambio globale da cui è difficile dissociare le diverse componenti quali la genialità, l’erotismo, la corporeità, la ricerca del piacere, i sentimenti d’amore e d’affetto.
Diventa piacere di comunicazione rispetto alle proprie sensazioni e piacere di ricevere sensazioni dagli altri con i gesti, con la voce, con lo stare insieme, con il corpo. La sessualità, in fondo, è una dimensione legata al piacere-desiderio di essere oggetto, e soggetto di desiderio e piacere.
La seconda dimensione propone la sessualità come espressione diretta della soggettività di ogni singola persona. Un processo che parte dal piacere della sensorietà e motricità, dalla cura di sé, dal senso stesso dell’esistere, della propria identità e unicità.
Il riconoscimento di queste componenti fa parte di un processo di crescita e di evoluzione che accompagna tutto l’arco della vita di ciascuna persona e che influenza l’identità personale, la corporeità, lo scambio con gli altri. Inoltre la sessualità evoca due ordini di pensieri ed emozioni: una legata al piacere, al desiderio, all’espansione e all’evoluzione di sé dei legami, espressione di energia e forza vitale e creatrice, ossia un insieme di aspetti positivi, giocosi spesso idealizzati (sessualità buona); l’altra, di contro, legata a percorsi più oscuri, che evocano disorientamento, eventuale solitudine e mancanza, prevaricazione e aggressività (sessualità cattiva).
Spostare l’ottica attraverso cui guardare il tema della sessualità è uno dei passaggi fondamentali per parlare di sessualità e disabilità, partendo dalla propria rappresentazione, dai propri valori e sentimenti in qualità di persone che comunque convivono con la propria soggettiva strutturazione delle numerose componenti che la sessualità racchiude.
Ognuno parte dalla propria immagine di sessualità nell’affrontare questo tema e nell’ascolto di ciò che l’altro esprime.
Spesso gli operatori avvertono questa premessa e sperimentano questa consapevolezza come una sorpresa che comunque cambia radicalmente l’ottica da cui elaborare riflessioni e interventi educativi; la conseguenza più evidente è quella che trasforma l’aspettativa di parlare di sessualità e approfondire il tema legato alla disabilità, nell’opportunità di elaborare la dimensione sessuale di una relazione che è costituita da due poli: l’operatore e l’utente, il paziente, e ciò che quella coppia crea di volta in volta con il reciproco interagire, sentire, cogliere dell’altro.
Paradossalmente "diventare carne" (spesso abbiamo usato questo titolo di poesia per evocare questo tema) rinvia a un significato che vuole riconosciuta la sostanza stessa della persona, la carne, quasi dimenticando come chi vive sulla propria pelle la presenza di una malattia, di un deficit o di un disagio, molto spesso è sottoposto a continue manipolazioni e invasioni della propria dimensione corporea senza che nessuno ricordi gli aspetti emotivi, i sentimenti e le emozioni che ogni relazione di cura va a determinare.
Tra cura e relazione
La sessualità spesso irrompe dentro ai progetti educativi o nell’ordinamento della vita quotidiana di una struttura; si presenta come qualcosa di inatteso, che sorprende e scombina i piani e che provoca negli operatori (e nei familiari) un forte senso di disagio e timore d’essere inadeguati.
Credo che in entrambi i casi, attesa o dimenticata, la sessualità getta spesso scompiglio, disordine, manda all’aria il modo concreto e quotidiano del "prendersi cura", fa sentire impotenti le più avanzate strutturazioni e conoscenze tecniche e i più rigorosi ordinamenti (gerarchie, il chi si prende cura di chi, il sapere della cura quotidiana dell’operatore, i progetti educativi e i percorsi individuali).
Le strutture che, per paradosso, si dotano dei più elaborati ordinamenti e divieti in ordine alla sessualità e alla sua più rigorosa esclusione dalle attività e dagli argomenti di cui gli operatori si possono occupare sono la concreta dimostrazione dell’impotenza e della forza dirompente che accompagna questo tema, negato o annunciato che sia.
La sessualità porta comunque con sé numerose prospettive di cambiamento, e viceversa la disponibilità nella cura all’altro ad avere antenne ricettive e in sintonia rispetto ai cambiamenti dell’utente promuove facilmente l’incontro con il tema della sessualità, con la sessualità dell’utente e inevitabilmente con la propria sessualità in qualità di operatori e persone.
Alcuni significati che la sessualità racchiude, alcuni piaceri rappresentati dalla sessualità hanno sorprendentemente grandi territori di comunicazione e spazi emotivi in comune con la professione di cura, con il senso di prendersi cura di.... e con l’esistenza del piacere collegato a esso, cioè, con il piacere di prendersi cura.
Per fare esempi, se pure schematici, possiamo considerare il piacere della sensorietà e motricità che la sessualità racchiude come occasione di numerosissime azioni, gesti, attenzioni che l’operatore compie nell’occuparsi di una persona con deficit (motòri, mentali, emotivi, psichici).
Il piacere che viene dal corpo, dalle sue sensazioni (essere toccato, contenuto, spostato, pulito, nutrito, cambiato) fa parte di quei piaceri primari che costruiscono, nello sviluppo di ciascuno, l’essenza di sentirsi vivi, dell’esserci, del benessere; i primi pilastri del senso della propria identità separata ed egualmente in comunicazione con il mondo, con l’altro.
Quanta parte del lavoro di cura con persone con deficit è attraversata da questa dimensione primaria di contatto e comunicazione!
Questa dimensione della sessualità, simile per ogni individuo, parte fondante della propria storia e del senso di sé, è di fatto uno spazio comune tra due persone che si trovano a contatto e che quindi inevitabilmente mettono in comunicazione aspetti tanto profondi ed emotivamente significativi.
La sessualità quindi impone, anche nell’operare quotidiano e per quelle funzioni che possono più facilmente richiamare alla mente "il fare", un’area di contatto con il piacere e con la sua mancanza, evocata dalla presenza del deficit e quindi dalla permanenza indefinita del bisogno d’essere oggetto della cura dell’altro.
La sessualità produce identificazioni rapide, inconsapevoli, spesso turbolente a questo livello di vicinanza.
Da questo punto di vista essa offre aperture verso il centro profondo di sentirsi soggetto-individuo, ma contemporaneamente può provocare oscure ribellioni rispetto alla percezione di sentirsi limitati, dipendenti, bisognosi, in balìa dell’altro.
Cosa succede nell’operatore che si trova, più o meno consapevolmente, a contatto con questo aspetto della sessualità, con il piacere e il disagio che di fatto scaturisce dal contatto dei corpi di chi cura e di chi è oggetto di cura?
Sotto questa visione il piacere/disagio che può venire dal corpo e dal prendersi cura sono un terreno conosciuto e praticato ogni giorno nella relazione operatore/utente di fatto già impegnati su un territorio che appartiene anche alla sessualità.
Un esempio di quanto affermato si ritrova nei percorsi di autonomia rispetto alla cura di sé, del proprio corpo e dei rapporti con gli altri (vestirsi, tenersi puliti, scegliere i propri abiti, farsi belli, conoscere nomi e funzioni del corpo, le sue parti pubbliche e quelle più intime e private), che sono in fondo un ambito in cui è comunque inclusa una parte della sessualità e può aprire molte altre strade di contatto o distanziamento.
Aspetti problematici
La sessualità può, per contro, produrre e mettere in atto atteggiamenti di rifiuto all’interno della relazione operatori-utenti, di negazione delle somiglianze nonostante le differenze, di vere e proprie segregazioni dei corpi, delle loro espressioni, dei loro bisogni: una riesumata segregazione di chi è diverso, meno autonomo, con minori opportunità.
La paura delle espressioni della sessualità e del suo "coinvolgere" può disorientare l’operatore che si sente oggetto privilegiato d’amore, di attenzioni, di richieste da parte della persona di cui è chiamato a prendersi cura. Nella stessa misura può essere conflittuale e destabilizzante "assistere" e cogliere il desiderio, il piacere, gli affetti che possono coinvolgere gli utenti nelle più disparate combinazioni.
Questi aspetti problematici possono provocare una specie di svilimento dei sentimenti delle persone coinvolte e ridurre le dinamiche emotive al puro istinto; provocare nuove giustificazioni al controllo inteso come prevaricazione sull’altro dotato di meno potere.
Di fatto molte richieste di consulenza, supervisione e formazione sul tema della sessualità includono, spesso ben nascoste agli stessi richiedenti, il bisogno di neutralizzare, deviare o sedare le espressioni in ordine ai temi dell’affettività, dell’erotismo e di ogni altra componente.
È indispensabile avere un’attenzione speciale per comprendere a quali bisogni si intende rispondere e da quali necessità, più o meno visibili, si è motivati. Può succedere che l’operatore si ritrovi schiacciato tra il desiderio, che è anche un mandato professionale di dare ascolto, accoglienza e disponibilità all’espressione dell’utente, e il dovere di controllare, impedire, neutralizzare.
Spesso dar voce alle preoccupazioni degli operatori sul tema della sessualità implica aprire spazi di riflessione riguardo a numerose istanze: le difficoltà legate al dovere di frustrare o soddisfare le richieste dell’utente e delle famiglie; misurarsi con il senso di colpa di usufruire di una qualità e quantità di libertà anche sessuali e relazionali sentite come molto più ampie e soddisfacenti rispetto alle persone di cui ci si cura professionalmente; costruire di volta in volta modalità appropriate per affiancare l’altro bisognoso, e a disagio nella sua solitudine, di senso di impotenza, di tristezza o ribellione; stare con l’altro piuttosto che fare-risolvere-agire a tutti i costi, così come il mandato istituzionale molto spesso esige.
Per concludere questa riflessione riprendo il contributo(1) di più autori a proposito della cura del bambino prematuro, contributo che può essere esteso significativamente alla dimensione di cura e a quanto può essere modificata dalla rielaborazione possibile all’interno di percorsi formativi, i cui spazi e tempi diventano luoghi per avviare un confronto capace di mettere in luce le similarità e le differenze, fra la realtà quotidiana praticata e altre impostazioni di lavoro.
Gli operatori, stimolati dalle proposte e dalle modalità di intervento discusse nei casi formativi, ma consapevoli delle difficoltà, delle risorse a disposizione e dell’organizzazione delle strutture in cui lavorano, potrebbero essere scoraggiati dalla prospettiva di tentarne un’applicazione.
Le reazioni di fronte alla sensazione di impotenza e di frustrazione potrebbero comprensibilmente emergere nel valutare questi messaggi interessanti, ma non fattibili.
Si può suggerire, come punto di partenza, la costruzione di un gruppo, anche ristretto, preferibilmente multidisciplinare, di operatori motivati con il compito di analizzare il proprio contesto di lavoro, le priorità in relazione all’attuabilità delle innovazioni da introdurre e di stabilire appuntamenti da raggiungere a breve e a lungo termine.
Vanno inoltre stabiliti criteri e modalità per cogliere l’utilità e l’indirizzo dei cambiamenti operati nelle tre aree del benessere dell’utente, delle famiglie e degli operatori che di essi si prendono cura.

Punti di vista complementari
La nostra esperienza ci ha insegnato che è possibile introdurre cambiamenti positivi e progettare percorsi che hanno come fondamento il reale ascolto dei bisogni di ogni entità coinvolta. L’associazione Centro di documentazione handicap di Bologna conduce da alcuni anni un’intensa esperienza formativa sui temi della relazione d’aiuto e delle professioni di cura. In particolare una parte consistente del lavoro formativo tocca il tema del rapporto fra handicap e sessualità.
Alcuni cambiamenti sociali e culturali, ormai da tempo avviati nel campo dell’integrazione delle persone disabili, hanno reso evidente la necessità di considerare la persona handicappata nella sua globalità e quindi anche riconoscendole la propria identità sessuale. Contemporaneamente la consapevolezza degli aspetti relazionali all’interno del lavoro sociale ed educativo permette il riconoscimento di una serie di istanze che coinvolgono il rapporto educatore-utente anche sui temi strettamente legati alla sfera sessuale e affettiva. Entrambi questi aspetti rappresentano fra i principali motivi che hanno reso sempre più frequente la richiesta di supporto e di formazione sul tema della sessualità, affettività e handicap, richiesta che rimanda in modo forte al desiderio di mettere in comune le esperienze di ognuno per ritrovare una chiave di comprensione.
Le conduttrici degli stage formativi del Cdh arricchiscono questo dossier con una riflessione a più voci sugli snodi significativi emersi negli anni dal lavoro diretto con i partecipanti.
Maria Cristina Pesci (sessuologa e psicoterapeuta). Occuparsi di sessualità comporta essenzialmente due ordini di riflessioni: uno riguarda l’inevitabile coinvolgimento all’interno della relazione con l’altro, il secondo implica un rimando prima di tutto a se stessi, al di là delle difficoltà che l’altro propone. Se pensiamo al lavoro di "cura" a cui rispondono gli operatori, molti aspetti dell’agire quotidiano contengono in sé dimensioni legate alla vicinanza, alla corporeità, alla comunicazione affettiva e relazionale che rientrano di diritto anche in un generale concetto di sessualità. In sintesi, molti aspetti della "cura" all’altro già rappresentano, spesso inconsapevolmente, la presa in carico di tematiche che la sessualità propone. Molte competenze del fare quotidiano hanno incluse risorse che affrontano la sessualità e i suoi significati. Svelata questa dimensione del lavoro di cura, la sessualità può essere un territorio di conoscenza e interazione ricca e feconda.
Marina Maselli (pedagogista). Uno degli elementi che accomuna chi lavora in servizi diversi (scuola, centri diurni, case di riposo, strutture residenziali o semiresidenziali) è l’affermazione iniziale: «Io di questo tema non so nulla, è un tema che mi spaventa, mi mette a disagio, ho bisogno di indicazioni concrete», che è poi quello che porta ad avere delle aspettative sul corso molto legate alla ricerca di soluzioni immediate. Ed è proprio questo il nocciolo da cui partiamo nella proposta formativa, chiedendoci: «Ma davvero questo è un tema rispetto al quale ognuno di noi, anche senza percorsi formativi specifici, non sa nulla? La sessualità non è forse una componente fondamentale della persona»? Senza dubbio si tratta di un aspetto che fatica a trovare spazio nella quotidianità degli operatori. È una dimensione celata che sembra rivendicare uno spazio nel momento in cui si manifestano situazioni di disagio o difficoltà. E ciò non è esclusivamente legato alla presenza di un deficit. Molto del primo lavoro è riequilibrare questa situazione, di contestualizzarla e rivederla nella quotidianità.
Daniela Lenzi (psicosessuologa). Nella nostra impostazione lavoriamo molto su ciò che sta accadendo dentro al gruppo, in quel momento, rispetto all’argomento, cercando di mettere in evidenza quali sono i meccanismi che scattano sia nel singolo che nel gruppo quando si va a toccare il tema della sessualità e dell’handicap, comunque in generale della sessualità. Ci troviamo a sottolineare come il nostro metodo di lavoro non è tanto dare informazioni su di un tema da studiare perché sconosciuto quanto aiutare loro a capire i meccanismi che scattano quando si vanno a toccare certi nodi. Spesso il lavoro sui casi è esemplare per far risaltare quello che sta succedendo lì fra gli operatori. Partire dal singolo operatore, dal gruppo per vedere come non c’è una scienza specifica sull’argomento, ma ognuno ci mette del suo nel parlarne, nell’ascoltare, nel pensarsi. Questo è un elemento che caratterizza l’impostazione che intendiamo praticare: il lavorare sul qui e ora di ogni specifico gruppo.
Maria Cristina Pesci. Un’altra riflessione centrale del modo di intendere la formazione su questo tema è legata all’attenzione posta su quei meccanismi universali che esistono quando ti trovi di fronte a una dimensione di relazione, in cui la sessualità è qualcosa di così specifico. «Cosa accade a me, cosa accade all’altro», e questo è in parte legato al tipo di difficoltà che l’altro di cui tu ti curi ha, ma solo in parte. C’è quindi sempre uno sfondo precedente, che sottende la relazione portante. «Perché con alcune persone la stessa masturbazione, ad esempio, non mi dà disagio e con altri utenti mi mette in difficoltà»? Con ogni persona esiste un significato e una relazione specifica, anche rispetto al tema così preciso come la masturbazione.
È il riconoscimento che questi temi universali non hanno a che fare esclusivamente con un certo tipo di disagio o di deficit, che avvia un percorso che può diventare innovativo anche nella quotidiana progettazione educativa.
Giovanna Di Pasquale (pedagogista). Nella ricerca di quale senso dare a un percorso formativo sul tema della sessualità e dell’handicap, mi sembra centrale l’idea di toglierlo dal luogo della non parola, come se questo tema, così forte e centrale per tanti aspetti sia personali che di ruolo, scivoli nel non detto. È questo un terreno difficile su cui poco si riesce a costruire degli spazi in cui, prima di parlare di soluzioni, si possa ragionare. Su altri aspetti della relazione di aiuto forse si può correre il rischio opposto di enfatizzare, ma comunque ci si sente liberi di esprimersi. Ad esempio per l’aggressività: un operatore si può sentire libero di vederlo come problema e di esporlo così. Sulla sessualità questo non avviene; dentro al ruolo professionale si fa fatica a trovare una possibilità (uno spazio/tempo) anche semplicemente per dire: mi sento così. I meccanismi che emergono nei gruppi vengono fuori come se fosse una prima volta, magari perché per molti è davvero una delle prime occasioni per parlare di certe situazioni, per dare un nome a quello che si sente.
Maria Cristina Pesci. La sessualità è un tema che sottolinea e rende più visibili elementi che attraversano altre tematiche e che fanno parte dell’operatore, del suo mettersi in relazione e prendersi cura dell’altro. La sessualità, rendendo più visibile alcuni meccanismi, porta a riflettere su cosa significa lavorare in una professione in cui tu ti prendi cura dell’altro, che si propone come bisognoso e dipendente e in cui in qualche misura ci si sostituisce alla famiglia. Il tema della sessualità non è un tema ristretto, non può essere legato a un apporto solo tecnico e specifico ma anzi permette di ragionare ad ampio raggio sul senso del proprio ruolo e delle proprie azioni, all’interno della dimensione ampia della relazione di aiuto e di cura e nei suoi collegamenti sia con altri importanti interlocutori come la famiglia, sia con alcune tappe dello sviluppo personale particolarmente significative come l’adolescenza o la conclusione di quella che è definita età evolutiva.
Daniela Lenzi. Per capire meglio il lavoro che proponiamo è importante chiarire i rapporti fra il contributo psicoanalitico e quello pedagogico. Anche perché fra gli approcci psicologici, quello psicoanalitico è generalmente quello che si è avvicinato meno alla pedagogia e viceversa. Anzi per lungo tempo sono stati quasi antagonisti, mentre è necessario tenere accostati questi due contributi.
Marina Maselli. Man mano che il discorso all’interno dei gruppi si sviluppa e procede verso uno scambio e confronto più attivo, due concetti vengono alla luce: "sessualità " e "disordine", dando vita a una riflessione più ampia. L’affermazione che la sessualità è disordine rimanda alla complessità della relazione educativa. Quando siamo in una relazione educativa siamo in una situazione di complessità, che non è l’elogio della complicazione, ma la consapevolezza della compresenza di molte dimensioni emotive, organizzative, formative. Ragionare in termini di complessità significa anche riappropriarsi di una dimensione precisa come è quella delle emozioni che in alcuni approcci pedagogici viene negata in nome di una presunta scientificità. Ciò che privilegiamo è il punto di vista del vissuto dell’operatore, perché la comprensione dell’altro passa dal riconoscimento delle tue emozioni. Questo è un aspetto che ci accomuna: l’idea che lavorare in educazione comporta una dimensione non sempre prevedibile. E questo vale per gli adulti come per i piccolissimi. Il tema della sessualità mette in luce proprio l’aspetto dell’imprevisto, ciò che non riesco a codificare. Spesso la sessualità fa esplodere in modo macroscopico elementi che sono legati alla fatica di governare l’imprevisto di stare dentro alla relazione che ci chiede di fare i conti con molte componenti.
Giovanna Di Pasquale. Ripensando a come è nata la proposta di coniugare i contributi pedagogici e psicologici, due elementi hanno funzionato da stimolo nel farmi pensare a questa collaborazione in termini di crescita e arricchimento reciproco e mi hanno convinta della possibilità di riuscire a conciliarli. Il primo elemento si richiama all’idea di ricongiungimento delle parti, rimettere insieme, restituire un’armonia al di dentro e al di fuori. «Ciò che mi succede dentro ma anche come tutto questo ha un forte riflesso su quelle che sono le mie azioni, le mie strategie, i modi visibili». Questo per evitare la frattura di un approccio psicologico che indaga la dimensione intima, non riuscendo a coniugarsi con la possibilità d’essere ricondotta all’esterno e di una pedagogia vista come scienza dell’azione che lavora in modo separato dalle sfere esterne. Un elemento di forza del percorso formativo è proprio il tentativo di tenere unito nella formazione ciò che nella quotidianità è davvero inscindibile.
Il gruppo come risorsa
L'altro elemento convincente è il desiderio, il tentativo di trasformare la richiesta che viene dai partecipanti del "sapere sull’altro" (voglio sapere delle cose sull’altro perché comunque il problema, la sessualità è dell’altro) in: vediamo come questa situazione tocca me, cosa fa risuonare in me. Capire cosa può rappresentare per me. Se tocca qualcosa nell’altro, tocca qualcosa anche di me. C’è in tocca qualcosa anche di me. C’è in questo un forte richiamo alla dimensione pedagogica della relazione educativa come profondamente implicante: implica l’altro, ma tira dentro anche me. Non si può guardare l’altro senza tenere conto che ci sei anche tu dall’altra parte.
Marina Maselli. Un’altra cosa che ho sperimentato come elemento di crescita comune con i partecipanti è la possibilità di prendersi un tempo. Tempo per aspettare le risposte che vengono dal gruppo, ma anche un tempo che è fatto di silenzi, di pause di riflessione. Se chi conduce il percorso ha in mente un’idea di "formatore" che fornisce risposte immediate, il tempo dell’attesa può essere vissuto con un forte senso di disagio e di frustrazione. Ma se la prospettiva è quella di dare corpo a un lavoro che cerca di fare dialogare le varie forme di sapere, allora la maggior ricchezza sta proprio nell’avere più sguardi sulla situazione.
Maria Cristina Pesci. Il gruppo come risorsa costituisce un forte parallelo con l’operare quotidiano del rapporto fra l’operatore e l’utente. Da una parte è chiamato a dare subito risposte e dall’altra avverte la necessità di darsi un tempo in cui è ancora necessario comprendere. Un tempo non fatto di vuoto, ma di risorse che si devono mettere in moto, rendersi visibili attraverso l’apporto dei pensieri delle diverse persone.
Come conduttrici ricerchiamo l’equilibrio fra il soffermarsi su alcune questioni in qualche modo già preordinate e il saper seguire le direzioni che il gruppo prende nel momento in cui sta elaborando e discutendo per vedere dove porta quella riflessione, dove porta quella situazione. Arrivando magari a qualcosa d’altro che non era previsto. In questo vedo un forte collegamento fra un approccio educativo-pedagogico e un approccio psicoanalitico legato alle emozioni. Mediare in modo tale da non essere sempre e solo in balìa di emozioni che poi non sai governare, in te e nell’altro, e nello stesso tempo non essere sempre dietro a un percorso che avevi già pensato anticipatamente.
Marina Maselli. È un po’ come ridare dignità a una dimensione lasciata ai margini. È anche evitare che un tema come questo diventi terreno di parcellizzazione esclusivamente specialistico, diventi occuparsi di una parte di quella persona.
Maria Cristina Pesci. In effetti la sessualità è una dimensione molto nascosta che idealmente si tende a percepire come separata nella relazione che spesso viene vista, sia dall’istituzione che dalle persone interessate, come asessuata.
Daniela Lenzi. Il "ripartire dall’operatore" all’inizio è la cosa che lascia più sbalorditi i partecipanti, ma alla fine del lavoro diventa la loro prima risorsa, capire che dentro di loro c’è in qualche modo anche la risposta. Nel loro modo di essere c’è la visione della relazione con l’altro, ma c’è anche la possibilità di modificarla. Lavorare sull’operatore non significa solo metterlo in crisi ma ritrovare nelle risposte che ognuno si è dato un punto di partenza per la quotidianità.
Marina Maselli. Nel lavoro di approfondimento, questi aspetti si rafforzano e precisano ulteriormente. Il tentativo è quello di mettere in luce le competenze, gli strumenti che gli operatori già hanno. Ricordo un contributo di Giancarlo Rigon, neuropsichiatra, in cui ripensando al lavoro svolto nei gruppi di supervisione afferma: «Sono persone che lavorano nei servizi territoriali, sono persone che sanno fare cose straordinarie e spesso le fanno perché sono capaci di misurarsi con un’entità, qualità e variabilità dei problemi ai quali viene mediamente data una buona risposta mettendo molto spesso, in questa ricerca di risposte, il meglio di sé, trovando soluzioni originali e qualificate. Il rischio di queste esperienze è che vengano sottostimate dalla stessa persona che le realizza, non considerate nel loro valore clinico». In questo senso tutti i due i percorsi proposti vogliono essere prima di tutto un luogo in cui condividere pratiche e pensieri sul ruolo e sul lavoro che si conduce.
Giovanna Di Pasquale. Il parallelo fra ciò che succede in formazione e ciò che caratterizza la quotidianità dell’operatore è il punto di qualità di una prospettiva formativa non circoscritta all’idea del dare forma all’altro né a una didattica della sessualità e un punto di criticità. Questo parallelo in alcune persone può essere evidente: imparo non solo perché tu mi dici delle cose, ma perché condivido un tempo e rivivo meccanismi e dinamiche che avvengono in ogni gruppo di lavoro, ma non è certo un processo di comprensione scontato per tutti. Quando la formazione non è solo trasmissione di contenuti, ma condivisione di tempi e spazi, parole e silenzi e riflessione su ciò che accade, necessita di tempi lunghi per essere compresa, diventa un percorso di accompagnamento. Anche noi abbiamo pensato a uno stage di approfondimento, per continuare a lavorare sulla possibilità di un gruppo di essere tale, con tutta la fatica e la risorsa che questo porta con sé.
Cultura, media e istituzioni
Sono passati quasi 23 anni da quando sul Corriere della Sera, in una rubrica sulla condizione degli handicappati, dopo il tempo libero e le barriere architettoniche, Camillo Valgimigli, neuropsichiatra modenese, pose il problema "sessualità" e soprattutto le ipocrisie e i silenzi che questo tema nasconde.
Forse, senza rendersene conto allora, Valgimigli sottolineava una svolta nella cultura che circonda l’handicap, come dire: «Ammesso che per la persona con handicap rimanga un po’ di tempo libero inteso nella accezione comune, e ammesso che, abbattute le barriere, questo fortunato possa trovarsi in giro a vedere che aria tira, a questo punto può rendersi reale la possibilità di chiedersi cosa farne del suo essere persona sessuata».
Non è solo per fare una battuta che abbiamo immaginato a questo punto il famoso amico a quattro ruote che, nel mezzo della piazza, si guarda intorno con l’occhio furbo per vedere su quale occasione buttarsi; dopo essersi liberato da fisioterapisti e apparecchi ortopedici, aver tirato giù scalinate e gradini, aver terminato il lavoro in un qualche laboratorio protetto. Il tempo libero presuppone un tempo occupato in cui si riveste un ruolo socialmente riconosciuto, ma questo tempo è spesso un lusso per una persona handicappata, presuppone un inserimento avvenuto, un’autonomia di gestione personale spesso improbabile. Lo stesso vale per le barriere architettoniche: presuppone in ogni caso una cultura cittadina che consideri l’handicap sempre presente nella propria vita.
A questo punto è lecito chiedersi che cosa c’entri il tema della sessualità. Le risposte potrebbero essere molte e pertinenti, ma si possono forse accomunare in un dato "storico": l’handicap adulto è una realtà nuova sul mercato dei servizi. Non perché prima nessun handicappato raggiungesse l’età adulta, ma perché consumava i suoi giorni in istituti conosciuti a pochi, oppure all’interno della famiglia. In questi contesti la realtà che emergeva e che emerge violentemente e paradossalmente è quella del sesso colorato di incesto, di violenza, di prevaricazione, ed è quella che viene riportata sulla cronaca dei giornali e non solo. La sessualità esiste per l’handicappato, ma emerge a tinte fosche e sottolinea la diversità, la non autonomia. Il dato di una sessualità come parte integrante di ciascun individuo non è nell’handicap un dato acquisito; basti pensare a quanti siano i fiocchi rosa o azzurri che ornano le porte delle case dove nascono bambini handicappati; nascere maschi o femmine è l’abc della sessualità.
Nella cultura in cui siamo immersi ciò è avvenuto forse perché l’argomento sessualità è sempre stato abbinato a situazioni di rottura, di disobbedienza, di istinto liberato e quindi pericoloso, da gestire e tenere sotto controllo.
Pensate a un tema con tal caratteristiche affiancato a quello della diversità, dell’emarginazione, della malattia e della morte che l’handicap porta dentro di sé nella cultura in cui siamo immersi: una miscela esplosiva. Ecco allora che una soluzione per non dover affrontare questa miscela diventa quella di negare, con più o meno consapevolezza, che la persona handicappata, in quanto proprio persona, sia sessuata. E proprio l’handicap è il fattore che facilita questo meccanismo, con le sue realtà, spesso, di dipendenza fisica e psicologica. Questo era il contesto culturale che ci ha accompagnato da quel lontano ‘77 ad oggi. Paradossalmente si può dire che nulla è cambiato e contemporaneamente una piccola rivoluzione è avvenuta; dipende dall’osservatorio che scegliamo.
Per quanto riguarda i media, il tema della sessualità è stato oggetto di scarsissime ricerche e parrebbe che televisione e cinema svolgano un ruolo assai più positivo della stampa quotidiana. Scrive Franca Roncarolo(2): «Nelle trasmissioni televisive gli esempi sono rari ma significativi; si va dalla storia di Lassie in cui una ragazzina fa apertamente i conti con l’imbarazzo di un aspirante boy friend in sedia a rotelle ... al ragazzo divenuto disabile che alla trasmissione "Perdonami" chiede scusa alla ex fidanzata ... Il punto è che, a differenza di quanto accade per altri temi, nelle rappresentazioni televisive delle relazioni amorose e sessuali i problemi sono riconosciuti come tali, esplicitati e fatti oggetto di tentativi vari di elaborazione. Il che, forse, è un modo per iniziare a metabolizzarli e, lentamente, a risolverli».
Sulla stampa quotidiana invece tutto rimane immutato. In una ricerca da noi pubblicata nel 1990(3), il 90% degli articoli dedicati dalla stampa a questa tematica era legato a episodi di violenza, scandalistici o connessi ai temi dell’aborto e della sterilizzazione.
"Sesso e violenza tra handicappati", "L’indomabile pornografo paralitico", "Ha punito la sorella minorata che aveva ceduto alla corte di un saltimbanco di colore con un mattarello", "Se la bella paraplegica posa su Playboy", "Amori, orge , violenze tra handicappati", "Minorata psichica violentata dal fratello": e ci fermiamo qui. Nulla cambia in una ricerca svolta alcuni anni dopo(4): sempre legati ai temi della violenza circa il 90% degli articoli.
Perché è necessario pubblicizzare tanto la violenza sessuale sugli handicappati? La sessualità di chi è diverso mette in crisi i nostri schemi, mette a nudo le nostre zone d’ombra. Quindi, la violenza sessuale sull’handicappato diventa strumento di fuga da queste paure. Non si tratta solo di "punire" la diversità dell’handicappato, ma anche e soprattutto di riaggrapparci alla normalità.
Sicuramente una maggiore consapevolezza del tema si è sviluppata negli ultimi dieci anni all’interno delle associazioni di handicappati e loro famigliari. Si tratta ancora di primi passi, di approcci che tendono a farne una tematica specifica, ma almeno se ne parla e molti sono stati gli articoli sulle riviste di categoria e le iniziative attivate come conferenze e seminari. Tra tutte ci pare utile segnalare le iniziative delle sezioni Anffas di Varese e Prato(5), che hanno dato continuità al loro lavoro.
Per quanto riguarda l’atteggiamento delle stesse persone handicappate, intese non come singoli, ma come gruppo sociale, si riscontra ovviamente un desiderio e un bisogno enorme di parlare di questo tema; c’è chi lo fa come testimonianza in volumi autobiografici, in interventi durante il dibattito dei convegni, in articoli sulle riviste delle associazioni. Ma c’è anche la corrente "rivendicativa", legata ai gruppi che fanno riferimento alla filosofia della independent living, che pone il tema come j’accuse nei confronti della società, spesso utilizzando modalità provocatorie come le recenti foto osé di una cantautrice handicappata e del suo compagno.
Infine qualcosa si è mosso anche nei servizi dell’ente locale o gestiti in convenzione da cooperative e associazioni. Quasi tutte le richieste di formazione fatte al Cdh provengono da questi ambiti, in particolare da chi gestisce strutture semiresidenziali (centri diurni socio-educativi), mentre molto più ridotto è l’interesse da parte di strutture di formazione professionale o prettamente clinico-riabilitative. Anche valutando il lavoro formativo si osserva un’evoluzione dell’atteggiamento degli operatori e dei responsabili dei servizi in termini di maggiore consapevolezza.
Maria Cristina Pesci e Andrea Pancaldi
[/QUOTE]
[/QUOTE]
Affettività e disabilità
Simonelli: "Anche la sessualità deve essere insegnata". (25 marzo 2008)

Chiara Simonelli insegna psicologia dello sviluppo sessuale e affettivo nell'arco di vita ed è una delle massime esperte sul tema. Uno sguardo d'insieme sulle problematiche, i contesti, le modalità di relazione, gli eccessi e gli scrupoli che si incontrano nel mondo dell'affettività e della sessualità delle persone con disabilità Chiara Simonelli insegna"Psicologia dello sviluppo sessuale e affettivo nell'arco di vita" e "Psicologia e psicopatologia dello sviluppo sessuale" alla facoltà di psicologia dell'Universita La Sapienza di Roma. Esperta di sessuologia, si occupa di questa materia dal punto di vista clinico, ma anche da quello della ricerca e della formazione. A lei abbiamo rivolto alcune domande per gettare uno sguardo su un campo quanto mai delicato e complesso.
Quali sono le problematiche più ricorrenti che si riscontrano per quanto riguarda il rapporto tra disabilità e sessualità?
Per capire il discorso delle problematiche bisogna, innanzitutto, fare una prima grande distinzione. Spesso si parla di disabilità in maniera onnicomprensiva e questo costituisce un grave errore metodologico. La disabilità è un cappello enorme, all'interno del quale esistono tutta una serie di variabili e tutta una serie di mondi. Una prima distinzione che va fatta è sicuramente tra disabilità fisica e disabilità mentale, e ovviamente queste due diverse tipologie comportano problematiche del tutto diverse. Nel caso del disabile fisico siamo di fronte ad una "incapacità di fare", mentre nel caso del disabile mentale si tratta di una "incapacità nella responsabilità di fare". E' chiaro che dentro questi due grandi gruppi ci sono tante altre distinzioni da fare in ragione del grado di disabilità. Ci sono tutta una serie di sottocategorie e disagi e ciascuno di essi interferisce in maniera diversa nell'ambito della sessualità.
Nell'immaginario collettivo la sessualità è vista come prerogativa dell'adulto bello, sano, affermato socialmente, mentre è invece tendenzialmente negata per tutti quei soggetti che non rispondono a questi requisiti, come ad esempio i bambini, gli anziani e appunto i disabili. Nel caso delle persone con disabilità, quali sono le ragioni socio-culturali che portano al non riconoscimento dell'importanza della dimensione sessuale?
Effettivamente esiste una tendenza diffusa per cui la sessualità è associata alla bellezza e all'avvenenza. Per le persone disabili questa situazione è ancora più esasperata. Queste persone sentono l'impossibilità di essere attraenti perché il corpo - tradizionalmente percepito come luogo di piacere - è invece associato a qualcosa di negativo, che non si vuole mostrare. Tutto questo fa sì che si sentano meno eroticamente eccitanti. Accade di frequente che nelle persone con disabilità la dimensione della sessualità non sia legittimata, o addirittura sia completamente negata. Per superare questo limite abbiamo a disposizione due modelli di lavoro: il modello medico e il modello sociale. Il primo lavora sul singolo individuo portatore di disabilità, aiutandolo a raggiungere la migliore autonomia possibile; il secondo, invece, si è affermato in Inghilterra a partire dagli anni '70 e si basa su di un approccio che interpreta la disabilità come un prodotto sociale, pertanto pone l'accento su come abbattere la condizione di svantaggio superando così la disabilità. Secondo il modello sociale è opportuno che la società fornisca gli strumenti per ridurre l'handicap, inteso come svantaggio sociale. Molto è stato fatto in questa direzione ma molto si deve ancora fare, soprattutto nel campo della sessualità.
Che ruolo occupa il contesto sociale, culturale e educativo nella formazione dell'identità sessuale nel disabile?
In generale alle persone disabili non viene garantita una giusta informazione e educazione alla sessualità. Nelle famiglie c'è una grande difficoltà nell'affrontare il discorso della sessualità perché nell'immaginario collettivo i disabili vengono visti come eterni bambini, in qualche modo asessuati. Non si pensa che queste persone possano avere una propria individualità, una propria autonomia. Per i disabili è più difficile avere accesso alle informazioni che riguardano la sessualità. In questo senso per le donne disabili la situazione è più complicata. Nell'immaginario collettivo si pensa che una donna possa prescindere dall'appagamento sessuale, viceversa per l'uomo è maggiormente riconosciuta la possibilità dell'istinto e delle pulsioni sessuali. In presenza di un disagio possono verificarsi reazioni molteplici: si può avere un atteggiamento di fuga, un atteggiamento di attacco (ovvero una esasperazione dell'aspetto seduttivo in tutte le relazioni interpersonali) o, ancora, un atteggiamento di ritiro per cui la sessualità è vissuta come dimensione solitaria, da non rappresentare all'esterno.
Indubbiamente il contesto culturale ha un impatto molto forte e determinante nella percezione della sessualità. La nostra identità dipende sicuramente dall'ambiente in cui siamo inseriti e dai feedback che riceviamo dall'esterno. Questo discorso vale anche per la sessualità. E' molto importante che non sia negata la possibilità di confronto, che non siano ostacolate le occasioni per relazionarsi con l'altro sesso.
In questo senso quali possono essere le iniziative da attivare e potenziare per offrire un sostegno alle famiglie, tenendo conto che spesso le famiglie non sanno come gestire i bisogni sessuali dei figli disabili, soprattutto nel periodo particolarmente critico dell'adolescenza?
Spesso le famiglie non sono preparate e hanno paura di affrontare il tema della sessualità. La sessualità è invece un comportamento appreso e come tale va insegnato. E' ovvio che per affrontare il discorso della sessualità con una persona con disabilità psichica ci sono degli strumenti più appropriati rispetto ad altri, ma non bisogna certo non riconoscerla e non spiegarla. E' da pochi anni che i ragazzi disabili vengono inseriti nelle classi con i compagni normodotati, prima si parlava di "classi speciali" e questo ha determinato un ulteriore depauperamento delle informazioni e delle occasioni di confronto. In una ricerca condotta alcuni anni fa dal Prof. Stefano Federici dell'Università di Roma, all'interno di alcune scuole della capitale, emerse che, di fronte alle manifestazioni di tipo sessuale dei ragazzi disabili, un atteggiamento abbastanza diffuso degli operatori era o di indifferenza o di repressione. Personalmente ritengo opportuno che gli operatori facciano dei corsi specifici in materia di sessualità. Purtroppo non è prevista una situazione che contempli un'educazione sessuale nella disabilità a livello istituzionale. In questo senso esistono degli istituti "illuminati" ma diciamo che non è una prassi comune. Ci dovrebbe essere una educazione alla sessualità che coinvolge tutta la rete che si relaziona con i disabili, a partire dalla scuola e dalla famiglia.
Nel caso della disabilità fisica, quanto i limiti funzionali del corpo possono incidere negativamente sulla percezione di sé della persona disabile? In che modo questo potrebbe influire sulla sfera sessuale?
Per essere precisi andrebbe fatto un discorso a sé per ogni tipo di disabilità fisica. In generale si può affermare che alcuni deficit organici possono comportare delle alterazioni al processo di erezione o di eccitazione. Nel caso di una donna questo potrebbe generare una difficoltà nella lubrificazione e, di conseguenza, ridurre le possibilità di raggiungere l'orgasmo. Nel caso di un uomo, al contrario, si potrebbe verificare una disfunzione erettile. Pur nella sua complessità il processo di eccitazione avviene secondo un meccanismo abbastanza semplice: ci sono degli stimoli tattili che riguardano gli organi genitali che, attraverso l'arco riflesso, risalgono al cervello che a sua volta li rielabora come situazioni eccitanti (si entra nella fase del desiderio) e poi li ritrasmette agli organi genitali. Se in questa comunicazione c'è un trauma è inevitabile che essa si interrompa. Ora, può essere che la lesione non sia così estesa da interrompere totalmente la comunicazione, ma può alterarla in qualche modo. Comunque esistono dei rimedi che permettono che, anche in caso di difficoltà di lubrificazione o di erezione, si possano avere rapporti sessuali soddisfacenti. Ci tengo a sottolineare che tutto dipende dal tipo e dal grado di disabilità. Del resto anche la sordità rientra nella categoria della disabilità fisica, ma logicamente ha una ripercussione diversa sulla sfera sessuale rispetto ad una mielolesione. Bisogna poi anche distinguere vari casi a seconda del momento in cui si verifica la disabilità: può trattarsi di una condizione presente fin dalla nascita, può avvenire nel momento dell'adolescenza, può esserci prima della costituzione della coppia oppure dopo. Queste quattro situazioni producono effetti molto diversi tra loro, e ciascuna di esse prevede una serie di specifiche problematiche connesse.
Nel caso della disabilità psichica, quali possono essere gli strumenti a disposizione delle famiglie per interpretare le naturali pulsioni sessuali del disabile?
Anche per la disabilità psichica è opportuno distinguere se si tratta di disagio lieve o disagio grave. Come dicevo in precedenza, vanno semplicemente cambiati gli strumenti educativi. Tanto più grave è la disabilità, tanto più gli strumenti saranno elementari. Deve essere abbattuto il concetto che la sessualità non vada insegnata.
Nel libro di Bruno Tescari "Accesso al sesso- il kamasabile" si fa riferimento ad alcuni casi in cui i genitori arrivano ad avere rapporti con i propri figli o li accompagnano da prostitute. Quali sono le dimensioni di questo fenomeno e che giudizio si sente di esprimere a riguardo?
Purtroppo è un fenomeno che esiste, anche se non così frequente sulla base dei dati che abbiamo a disposizione. Il primo tipo di situazione crea un'alterazione e confusione dei ruoli sicuramente negativa. Molte donne intervistate affermavano la loro preoccupazione rispetto all'ipotesi che il figlio disabile possa manifestare fuori del contesto familiare la propria sessualità e questo possa compromettere le relazioni sociali. L'intervento più corretto è senza dubbio quello educativo, bisogna trasmettere che ci sono tempi e modi per vivere la sessualità.
Come si può abbattere la credenza diffusa secondo la quale la dimensione sessuale nei disabili è considerata secondaria rispetto ad altri aspetti, come l'integrazione sociale e l'inserimento lavorativo?
E' fondamentale passare l'informazione che diventa così formazione. Molti traguardi sono stati raggiunti, difatti oggi si parla sempre più spesso di sessualità e sono ottimista nel credere che prima o poi si arriverà a contemplare ed accettare le diverse forme di sessualità possibili.


CITAZIONE (lino742006 @ 4/11/2011, 11:26) 
bellissimo

Affettività e disabilità
Simonelli: "Anche la sessualità deve essere insegnata". (25 marzo 2008)

Chiara Simonelli insegna psicologia dello sviluppo sessuale e affettivo nell'arco di vita ed è una delle massime esperte sul tema. Uno sguardo d'insieme sulle problematiche, i contesti, le modalità di relazione, gli eccessi e gli scrupoli che si incontrano nel mondo dell'affettività e della sessualità delle persone con disabilità Chiara Simonelli insegna"Psicologia dello sviluppo sessuale e affettivo nell'arco di vita" e "Psicologia e psicopatologia dello sviluppo sessuale" alla facoltà di psicologia dell'Universita La Sapienza di Roma. Esperta di sessuologia, si occupa di questa materia dal punto di vista clinico, ma anche da quello della ricerca e della formazione. A lei abbiamo rivolto alcune domande per gettare uno sguardo su un campo quanto mai delicato e complesso.
Quali sono le problematiche più ricorrenti che si riscontrano per quanto riguarda il rapporto tra disabilità e sessualità?
Per capire il discorso delle problematiche bisogna, innanzitutto, fare una prima grande distinzione. Spesso si parla di disabilità in maniera onnicomprensiva e questo costituisce un grave errore metodologico. La disabilità è un cappello enorme, all'interno del quale esistono tutta una serie di variabili e tutta una serie di mondi. Una prima distinzione che va fatta è sicuramente tra disabilità fisica e disabilità mentale, e ovviamente queste due diverse tipologie comportano problematiche del tutto diverse. Nel caso del disabile fisico siamo di fronte ad una "incapacità di fare", mentre nel caso del disabile mentale si tratta di una "incapacità nella responsabilità di fare". E' chiaro che dentro questi due grandi gruppi ci sono tante altre distinzioni da fare in ragione del grado di disabilità. Ci sono tutta una serie di sottocategorie e disagi e ciascuno di essi interferisce in maniera diversa nell'ambito della sessualità.
Nell'immaginario collettivo la sessualità è vista come prerogativa dell'adulto bello, sano, affermato socialmente, mentre è invece tendenzialmente negata per tutti quei soggetti che non rispondono a questi requisiti, come ad esempio i bambini, gli anziani e appunto i disabili. Nel caso delle persone con disabilità, quali sono le ragioni socio-culturali che portano al non riconoscimento dell'importanza della dimensione sessuale?
Effettivamente esiste una tendenza diffusa per cui la sessualità è associata alla bellezza e all'avvenenza. Per le persone disabili questa situazione è ancora più esasperata. Queste persone sentono l'impossibilità di essere attraenti perché il corpo - tradizionalmente percepito come luogo di piacere - è invece associato a qualcosa di negativo, che non si vuole mostrare. Tutto questo fa sì che si sentano meno eroticamente eccitanti. Accade di frequente che nelle persone con disabilità la dimensione della sessualità non sia legittimata, o addirittura sia completamente negata. Per superare questo limite abbiamo a disposizione due modelli di lavoro: il modello medico e il modello sociale. Il primo lavora sul singolo individuo portatore di disabilità, aiutandolo a raggiungere la migliore autonomia possibile; il secondo, invece, si è affermato in Inghilterra a partire dagli anni '70 e si basa su di un approccio che interpreta la disabilità come un prodotto sociale, pertanto pone l'accento su come abbattere la condizione di svantaggio superando così la disabilità. Secondo il modello sociale è opportuno che la società fornisca gli strumenti per ridurre l'handicap, inteso come svantaggio sociale. Molto è stato fatto in questa direzione ma molto si deve ancora fare, soprattutto nel campo della sessualità.
Che ruolo occupa il contesto sociale, culturale e educativo nella formazione dell'identità sessuale nel disabile?
In generale alle persone disabili non viene garantita una giusta informazione e educazione alla sessualità. Nelle famiglie c'è una grande difficoltà nell'affrontare il discorso della sessualità perché nell'immaginario collettivo i disabili vengono visti come eterni bambini, in qualche modo asessuati. Non si pensa che queste persone possano avere una propria individualità, una propria autonomia. Per i disabili è più difficile avere accesso alle informazioni che riguardano la sessualità. In questo senso per le donne disabili la situazione è più complicata. Nell'immaginario collettivo si pensa che una donna possa prescindere dall'appagamento sessuale, viceversa per l'uomo è maggiormente riconosciuta la possibilità dell'istinto e delle pulsioni sessuali. In presenza di un disagio possono verificarsi reazioni molteplici: si può avere un atteggiamento di fuga, un atteggiamento di attacco (ovvero una esasperazione dell'aspetto seduttivo in tutte le relazioni interpersonali) o, ancora, un atteggiamento di ritiro per cui la sessualità è vissuta come dimensione solitaria, da non rappresentare all'esterno.
Indubbiamente il contesto culturale ha un impatto molto forte e determinante nella percezione della sessualità. La nostra identità dipende sicuramente dall'ambiente in cui siamo inseriti e dai feedback che riceviamo dall'esterno. Questo discorso vale anche per la sessualità. E' molto importante che non sia negata la possibilità di confronto, che non siano ostacolate le occasioni per relazionarsi con l'altro sesso.
In questo senso quali possono essere le iniziative da attivare e potenziare per offrire un sostegno alle famiglie, tenendo conto che spesso le famiglie non sanno come gestire i bisogni sessuali dei figli disabili, soprattutto nel periodo particolarmente critico dell'adolescenza?
Spesso le famiglie non sono preparate e hanno paura di affrontare il tema della sessualità. La sessualità è invece un comportamento appreso e come tale va insegnato. E' ovvio che per affrontare il discorso della sessualità con una persona con disabilità psichica ci sono degli strumenti più appropriati rispetto ad altri, ma non bisogna certo non riconoscerla e non spiegarla. E' da pochi anni che i ragazzi disabili vengono inseriti nelle classi con i compagni normodotati, prima si parlava di "classi speciali" e questo ha determinato un ulteriore depauperamento delle informazioni e delle occasioni di confronto. In una ricerca condotta alcuni anni fa dal Prof. Stefano Federici dell'Università di Roma, all'interno di alcune scuole della capitale, emerse che, di fronte alle manifestazioni di tipo sessuale dei ragazzi disabili, un atteggiamento abbastanza diffuso degli operatori era o di indifferenza o di repressione. Personalmente ritengo opportuno che gli operatori facciano dei corsi specifici in materia di sessualità. Purtroppo non è prevista una situazione che contempli un'educazione sessuale nella disabilità a livello istituzionale. In questo senso esistono degli istituti "illuminati" ma diciamo che non è una prassi comune. Ci dovrebbe essere una educazione alla sessualità che coinvolge tutta la rete che si relaziona con i disabili, a partire dalla scuola e dalla famiglia.
Nel caso della disabilità fisica, quanto i limiti funzionali del corpo possono incidere negativamente sulla percezione di sé della persona disabile? In che modo questo potrebbe influire sulla sfera sessuale?
Per essere precisi andrebbe fatto un discorso a sé per ogni tipo di disabilità fisica. In generale si può affermare che alcuni deficit organici possono comportare delle alterazioni al processo di erezione o di eccitazione. Nel caso di una donna questo potrebbe generare una difficoltà nella lubrificazione e, di conseguenza, ridurre le possibilità di raggiungere l'orgasmo. Nel caso di un uomo, al contrario, si potrebbe verificare una disfunzione erettile. Pur nella sua complessità il processo di eccitazione avviene secondo un meccanismo abbastanza semplice: ci sono degli stimoli tattili che riguardano gli organi genitali che, attraverso l'arco riflesso, risalgono al cervello che a sua volta li rielabora come situazioni eccitanti (si entra nella fase del desiderio) e poi li ritrasmette agli organi genitali. Se in questa comunicazione c'è un trauma è inevitabile che essa si interrompa. Ora, può essere che la lesione non sia così estesa da interrompere totalmente la comunicazione, ma può alterarla in qualche modo. Comunque esistono dei rimedi che permettono che, anche in caso di difficoltà di lubrificazione o di erezione, si possano avere rapporti sessuali soddisfacenti. Ci tengo a sottolineare che tutto dipende dal tipo e dal grado di disabilità. Del resto anche la sordità rientra nella categoria della disabilità fisica, ma logicamente ha una ripercussione diversa sulla sfera sessuale rispetto ad una mielolesione. Bisogna poi anche distinguere vari casi a seconda del momento in cui si verifica la disabilità: può trattarsi di una condizione presente fin dalla nascita, può avvenire nel momento dell'adolescenza, può esserci prima della costituzione della coppia oppure dopo. Queste quattro situazioni producono effetti molto diversi tra loro, e ciascuna di esse prevede una serie di specifiche problematiche connesse.
Nel caso della disabilità psichica, quali possono essere gli strumenti a disposizione delle famiglie per interpretare le naturali pulsioni sessuali del disabile?
Anche per la disabilità psichica è opportuno distinguere se si tratta di disagio lieve o disagio grave. Come dicevo in precedenza, vanno semplicemente cambiati gli strumenti educativi. Tanto più grave è la disabilità, tanto più gli strumenti saranno elementari. Deve essere abbattuto il concetto che la sessualità non vada insegnata.
Nel libro di Bruno Tescari "Accesso al sesso- il kamasabile" si fa riferimento ad alcuni casi in cui i genitori arrivano ad avere rapporti con i propri figli o li accompagnano da prostitute. Quali sono le dimensioni di questo fenomeno e che giudizio si sente di esprimere a riguardo?
Purtroppo è un fenomeno che esiste, anche se non così frequente sulla base dei dati che abbiamo a disposizione. Il primo tipo di situazione crea un'alterazione e confusione dei ruoli sicuramente negativa. Molte donne intervistate affermavano la loro preoccupazione rispetto all'ipotesi che il figlio disabile possa manifestare fuori del contesto familiare la propria sessualità e questo possa compromettere le relazioni sociali. L'intervento più corretto è senza dubbio quello educativo, bisogna trasmettere che ci sono tempi e modi per vivere la sessualità.
Come si può abbattere la credenza diffusa secondo la quale la dimensione sessuale nei disabili è considerata secondaria rispetto ad altri aspetti, come l'integrazione sociale e l'inserimento lavorativo?
E' fondamentale passare l'informazione che diventa così formazione. Molti traguardi sono stati raggiunti, difatti oggi si parla sempre più spesso di sessualità e sono ottimista nel credere che prima o poi si arriverà a contemplare ed accettare le diverse forme di sessualità possibili.
 
Top
9 replies since 28/10/2011, 10:31   64 views
  Share